All’inizio di febbraio, la Chiesa d’Inghilterra si è posta un quesito: con quale genere riferirsi a Dio quando si prega? Sembra una questione banale, soprattutto considerando il carattere profondamente patriarcale della maggioranza delle istituzioni religiose nel corso della storia dell’umanità. E in effetti, come riconosciuto da un portavoce, «la varietà di modi in cui ci si riferisce a Dio e lo si descrive nelle Sacre Scritture non ha sempre trovato riscontro nella pratica»; quindi, la classica rappresentazione che lo identifica esclusivamente come uomo e padre rischia di diventare una semplificazione quasi irrispettosa nei confronti delle sfaccettature attribuite a quella divinità in epoche remote.
Si preannuncia insomma un dibattito acceso, sul piano sociale e teologico che, a prescindere dagli esiti, dimostra già un decente sforzo di rinnovamento da parte della Chiesa inglese – nella speranza che l’obiettivo non sia distogliere l’attenzione dagli scandali più recenti nell’ambito della pedofilia.
In effetti, le divinità maschili appaiono dominanti nelle nostre culture, e la maggior parte di noi, di conseguenza, non si è mai posta il problema del loro genere: limitandoci solo alle grandi religioni classiche nei dintorni d’Europa, Zeus/Giove è padre degli dèi greci e latini, Odino lo è per quelli norreni, la personificazione del sole nell’Antico Egitto era maschile, e così via. Ma nel frattempo è impossibile non rilevare anche una importante presenza femminile nella mitologia e tra le divinità, sempre naturalmente relegata in secondo piano, da Era, che chiude un occhio davanti alle scappatelle del marito, alla Madonna, capace di generare la vita senza perdere la sua purezza, alle varie ninfe e amazzoni che cercano di sfuggire al predominio degli uomini (spesso fallendo di fronte alla prepotenza di questi ultimi). Questi personaggi portano con sé tanti residui di credenze primordiali, e ce ne rendiamo conto proprio per le loro contraddizioni e per le domande che ci fanno sorgere: perché le dee scappano? Perché i loro tratti caratteriali sono sempre estremizzati rispetto a quelli degli uomini? Perché puniscono i mortali, covano rabbia, provano invidia, litigano e generano vita molto più rispetto alle controparti maschili? Perché, insomma, sembrano personaggi molto più complessi?
Le risposte vanno cercate in un momento storico precedente a quello dell’affermazione del patriarcato come ordine standardizzato della società, che ormai l’antropologia colloca nei millenni in cui l’umanità è diventata sedentaria, tra il Diecimila e l’Ottomila a.C.. Le teorie sulle cause di ciò sono tante, e meriterebbero uno spazio a parte: secondo alcuni la distinzione netta delle attività lavorative (già cominciata al tempo dei cacciatori-raccoglitrici) si affermò proprio allora in modo ormai irreversibile; secondo altri, nel momento in cui diventammo sedentari, le donne vennero qualificate come una sorta di bene immobile per gli uomini a cui erano legate, a differenza delle situazioni di nomadismo in cui potevano semplicemente allontanarsi se infelici con i partner, scegli…