«si era con pochi amici
nel Dopopalio
e ci fermammo per scattare
le foto d’uso.
Ne ho ancora una, giallo sudicia
quasi in pezzi
ma c’è il tuo volto incredibile,
meraviglioso […]».
La fotografia spesso, ed erroneamente, viene ridotta in un insieme di strutture, forme, colori e linee. Ma davvero un oggetto tale come una fotografia, ingiallita e sudicia, investe solamente questioni visive?
Il mondo della concettualità fotografica, largamente discusso e in maniera molto ampia, diventa traccia, segno della presenza in assenza e, grazie alla lirica di poeti illustri come Eugenio Montale, acquista, nella storia, sempre più senso. Ne è prova, ad esempio la collaborazione con il fotografo Ugo Mulas.
La vita del poeta genovese, ruota tutta attorno a quelle fotografie che lo hanno scosso, ispirato, diventando impulso, condensando dolori e gioie e rivelandosi al contempo muse ispiratrici, come i suoi travagliati amori. Attimi e immagini a rappresentare la sua storia, le sue storie.
Eugenio Montale: Irma e Drusilla
Parlando di Eugenio Montale e della sua poetica, la categoria concettuale fotografica si dilata, si amplia, dalla traccia, fino ad arrivare, all’astrazione e alla categoria del figurativo.
La sua lingua pietrosa e aspra e il fascino della condizione umana – “infernali” – hanno trovato in Montale un’eco di grande forza, già dai periodi iniziali del “proto-Montale” (definizione dell’autore stesso); quel giovane scrittore, che nel 1925, pubblicò una delle sue prime raccolte, Ossi di Seppia. Una delle raccolte di poesia più celebri e grandi di tutto il Novecento.
Nel verso dedicato a Irma Brandeis, la sua Clizia, figura mitologica che l’autore usò per personificarla, c’è tutto l’amore struggente e sfuocato degli anni della loro giovinezza, a descrivere quel pezzo di carta; la stessa valenza che potremmo dare a una fotografia a noi cara, custodita nel taschino del portafoglio.
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Non è solo una fotografia, è una fotografia che va contro la tecnica, l’inquadratura, la potenza della prospettiva, quella fotografia che va oltre, perché è proprio il ricordo, è la presenza in assenza, a farne da padrona.
E’ proprio Irma Brandeis, che nel luglio del 1933, dopo aver posato i suoi occhi smeraldo su Ossi di Seppia che ne rimase incantata e si recò al Gabinetto Vieussex a chiedere proprio del direttore, Eugenio Montale. I diari e le corrispondenze che ne scaturirono, corredati da inedite immagini fotografiche, descrivono le loro vite, le speranze, le ambizione nella loro difficile e intensa storia.
La loro estatica, poetica ed epistolare storia, che il poeta si lasciò scappare, perché incapace di rompere il suo altro legame con l’altra donna della sua vita, Drusilla Tanzi, sua sposa solo nel 1962, è racchiusa in quelle poche parole e rarissime immagini.
Più documentata è sicuramente la storia con la Tanzi, soprannominata Mosca, per il suo spesso paio di occhiali: Drusilla ispirò poi Montale per tutta la vita.
Le gambe di Dora e il ciliegio di Luisa Spaziani
Retrocedendo di qualche primavera, è quella del 1928 in cui, un’altra immagine, si intrecciò alle parole dell’autore, in una delle sue più note liriche, della raccolta Le occasioni.
La fotografia “incriminata” è quella che Bobi Bazlen, amico del poeta, allega alla lettere per descrivergli Dora Markus, austriaca di origini ebraiche su cui Montale doveva scrivere. Questa volta è proprio una fotografia, che riproduce solo le gambe di Dora, incorniciate da un lembo di gonna larga e plissettata; una fotografia che nega l’esistenza nella sua pienezza e che rivendica il suo diritto di essere. Diritto che viene restituito dalle parole dell’autore, in grado quasi di dare un’identità o meglio, la realtà, a un fantasma.
Altri versi, altra onda di ispirazione, nel gennaio 1949, quando una giovane e intraprendente direttrice di una rivista, Maria Luisa Spaziani, entrò silenziosa nella vita di Montale. Nei quindici anni di rapporto, lavorando a quattro mani sulle traduzioni e sulle produzioni letterarie, diventò la sua Volpe. Ricordata proprio come “l’amante di Montale”, la loro storia può essere raccontata in una fotografia che li ritrae felici.
Alle loro spalle, vi era un ciliegio, albero che diventerà simbolo iconico della loro storia. In Ha dato il mio nome ad un albero scritta dal poeta, si parla dello stesso albero a cui la Spaziani si riferisce quando scrive «Il ciliegio è solo un ciliegio e più nessun amore / mi attende all’angolo della strada», quello stesso albero che aveva il tronco e le radici nell’officina del padre della donna. Lo stesso ciliegio che ha guardato i loro sorrisi, che ha sentito le loro parole sussurrate.
Eugenio Montale e Ugo Mulas: la parola che s’incarna
Intanto gli anni passavano, come è passata la guerra; tornano le albe senza bombe sulla testa e Montale invecchia, tra le sue immagini, le sue parole, i suoi ritratti; tra i ricordi dei pezzetti della sua vita racchiusi tra colori e versi.
Si arriva, così, in fretta agli anni Sessanta, più precisamente al 1962, anno del matrimonio con Drusilla e anno in cui Ugo Mulas(1928-1973), decide di tributare attraverso la sua arte, la fotografia, un gesto d’amore ad un’altra arte, la poesia. Il grande fotografo italiano decide di illustrare proprio un’opera di Eugenio Montale: Ossi di Seppia.
Ne risulta un’opera con fotografie caratterizzate dalla scelta d’insoliti punti di vista e da un intenso lirismo, diventa una vera collaborazione tra le due arti, una danza di immagini e parole; il giusto connubio tra fotografia e scrittura, in modo che l’astrazione della parola si incarni e trovi la sua rappresentazione grazie alle linee dell’immagine fotografica.
Negli anni ’60, la triade corpoambienteconcetto ha espanso ormai i suoi confini, nella sperimentazione della concettualità, nel gioco delle parti tra realtà e finzione. Ugo Mulas, in questo riuscì a rappresentare visivamente il messaggio dei versi di Montale in modo tanto divino che anche il poeta, dopo averle viste, esclamò pieno di meraviglia: «Come hai fatto!Come hai fatto!».
Descrivere attraverso le immagini era possibile e ora ancora più ricercato.
Mulas: immagini che creano se stesse
Davanti alla fotografia, scriverà Mulas nel suo libro La Fotografia, edito da Einaudi nel 1973, «ci si trova spesso come di fronte a un pensiero senza linguaggio, inespresso; si possono avanzare mille supposizioni, ma non si è sicuri di centrare la giusta»; tuttavia, aggiunge «anche usando le parole l’immagine del pensiero può solo trasparire, non mostrarsi nella sua medesimezza».
Riconosce quanto la sua posizione di fotografo sia delicata, avendo a disposizione un linguaggio “non verbale” per cercare di trasmettere l’essenza di un altro linguaggio anch’esso puramente visuale, espresso, però, tramite lemmi e grafemi.
Il suo libro è un elogio alla fotografia come quell’arte in grado di generare «immagini che creano se stesse», che si spiegano attravero la loro essenza, come possono altrimenti aiutare a fare un titolo, un testo scritto, una dedica, per una normale fotografia, nei quali, puntualmente, l’idea sottesa ad ognuna di queste operazioni, viene estrinsecata da un’altra forma comunicativa.
Apre la serie un Omaggio a Niepce, che indaga, attraverso la “stampa a contatto” di un rullo vergine sviluppato, il grado zero della scrittura fotografica ossia la superficie sensibile; la chiude un’immagine, dedicata a Marcel Duchamp, identica alla prima, se non fosse per il fatto che il vetro, posto per premere le strisce di pellicola e per riquadrare la composizione, qui è stato spezzato a simboleggiare la fine della serie stessa, come pure una rottura col passato.
Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quella di registrarla nella sua totalità.
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