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L’importanza di chiamarsi Malaparte, il giocoliere d’idee

7 minuti di lettura

Curzio Malaparte non è il suo vero nome. Lo studente del liceo Cicognini di Prato è il pratese Kurt Erich Suckert, toscano di origini metà lombarde metà sassoni. Venne a sapere, studiando, che Napoleone – rampollo di una famiglia nobiliare toscana – cambiò, grazie ad un compromesso con il Papa, il proprio cognome in Bonaparte. Suckert ritenne opportuno prendere per sé il “vero” cognome di Napoleone I, Malaparte, un nome non semplice da portare di per sé, ma anche dal forte significato simbolico: il rifiuto categorico dell’ipocrisia, del compromesso, e dell’edulcorazione. Tratti salienti, questi, della sua personalità e della sua attività letteraria. Inviato di guerra per mezzo mondo fu editorialista di reportage ed elzeviri per il Corriere della sera e direttore de La Stampa.

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Amato da donne dell’alta società, amico di Galeazzo Ciano, fascista della prima ora, poi raffinato esegeta di Mussolini. Conobbe un periodo di esilio a Lipari e soggiornò a lungo a Capri, in una villa che disegnò lui stesso. Tra i molti intellettuali, romanzieri, e saggisti che hanno attraversato il Novecento, Malaparte appartiene al gruppo di quelli che oggi non godono di ottima fama popolare. In realtà, se c’è qualcosa a cui Malaparte non appartiene è un “gruppo”, cioè è refrattario al concetto di ‘gruppo’ a causa del suo noto ‘snobismo’, sebbene fu fondatore e direttore di “riviste culturali”. La società e le istituzioni politiche hanno innescato un processo di rimozione dell’autore, processo che fornisce la bella occasione di riscoprirlo. Personaggio scomodo e umbratile, troppo intelligente, troppo intraprendente e sagace. Troppa realtà, troppa verità nelle sue parole, troppi riferimenti eruditi complessi da decifrare e idee difficili da digerire e trasmettere. 

Scoprire Curzio Malaparte

Il libro di Andrea Orsucci, Il «giocoliere d’idee» Malaparte e la filosofia (Edizioni della Normale, 2015) nasce da questi problemi. Si direbbe da un’esigenza agiografica. Quella, cioè, di riabilitare e riscoprire l’importanza che ricopre, in generale e per noi oggi, il lavoro intellettuale e letterario di Curzio Malaparte. Il libro si tiene lontano da retorici esercizi di stile e da vuota erudizione, così come da giudizi censori e da encomi. Il pensiero che giace al fondo del libro e che, probabilmente, ne ha motivato la stesura e l’approfondimento che l’ha resa possibile è abbastanza chiaro: Malaparte ha elaborato uno stile narrativo stratificato di cui si possono minuziosamente rinvenire i riferimenti letterari e filosofici. Questo però è il pensiero più superficiale.

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Quello, invece, più profondo che sta alla base del libro, come il messaggio stesso che Orsucci si impegna a far passare, è che Malaparte aveva una capacità di rielaborazione olistica e sincretista di idee, concetti, visioni del mondo apprese da uno studio personale molto ricco e attento, che ha saputo coniugare con i fatti concreti di un periodo storico che ha vissuto sulla sua “pelle”. 

Scrive Orsucci:

Malaparte inizia, verso il 1920, a mettere appunto una particolare tecnica narrativa, che resterà invariata anche nei grandi libri degli anni Quaranta, basata sugli sforzi per giungere ad una fusione tra concreto ed astratto, eventi e speculazione

Ciò è chiaro: idee filosofiche, complesse e profonde concezioni mistico-religiose, antiche pratiche, l’arcaicità greco-etrusco-romana, il carattere dei toscani, culti magici, vengono puntualmente rinvenute nei contesti moderni che Curzio Malaparte abita ed osserva direttamente. “Giocoliere d’idee” vuol, quindi, dire: esploratore della storia delle idee nel loro esistere e persistere nella vita concreta delle persone. Il metodo narrativo di Malaparte è pertanto definibile come una penetrante e spregiudicata genealogia delle idee, anche di un lontano passato, che egli rileva nel presente. Lo scrittore risulta molto prossimo a Cèline ed a Ernst Jünger, per lo stile “neorealista”, ma non per il contenuto, il quale risulta carico di conoscenze filosofiche e letterarie, bagaglio che il libro di Orsucci squaderna facendo accedere il lettore di Malaparte ad una sorta di caveau dell’implicito i cui tesori custoditi possono essere ben investiti per comprendere l’articolazione vertiginosa, e dunque la profondità spirituale e teorica, con cui Malaparte osserva un contesto devastato, orribile, cruento, e inospitale, lontano dalla quiete ridente dei comfort cittadini, che Malaparte polarizza negli svariati rovesciamenti di senso su cui si focalizza. 

Per dare un’idea, l’autore toscano esprime questo parere sulla “civilizzazione”: 

l’umanità sgretolandosi retrocede all’individuo. Imbevuti di pragmatismo, gli uomini si affannano a catalogare, a determinare, a ridurre alle utilitarie esigenze quotidiane le più vaste concezioni della vita, provando ad appiattire e a disseccare l’esistenza e a farne una questione economica e finanziaria

Manifesto dell’Oceanismo, 1921

Invece sulla Grande guerra, scrive: 

gli analfabeti sugli altopiani del Carso si battono per difendere le ampie strade, le larghe piazze, i sontuosi palazzi dove uomini incancreniti di civiltà meditano le grandi opere

 La Rivolta dei Santi maledetti, 1921

Di parole pungenti come queste se ne trovano molte in Malaparte.

Curzio Malaparte: il “giocoliere d’idee”

Si potrebbe pensare facilmente che “giocoliere d’idee” epiteto che un critico ha appioppato a Malaparte abbia quasi un significato dispregiativo, è abbastanza chiaro che lo scrittore toscano elabora e fa propri stili e idee molteplici che recupera da autori noti. Si corre il rischio di rubricarlo come un furbo che sgraffigna concetti e tesi consolidate per realizzare una stucchevole prosa erudita la cui istruttività risiede unicamente nel citazionismo. Le sue considerazioni sul barocco e sul surrealismo, i questo senso, dovrebbero rappresentare una auto-ammissione di questo fatto, da parte dello stesso “giocoliere d’idee”. 

Ma il libro di Orsucci sventa l’ipotesi di un così falso giudizio. Dietro il citazionismo e al di là di esso si cela una profonda meditazione personale su fenomeni storico-antropologici e su tematiche eterne quali il tempo, il mistero dell’essere, la vita, la morte, la natura. Tematiche, queste, che, a loro volta, essendo ormai avvezzi a uno studio per formulette, nozioni, correnti di pensiero, ci sembrano ormai banali e inflazionate, complice di questo fraintendimento impietoso è sicuramente la smania tutta scolastica di semplificare l’accesso a tutto, di catalogare pensatori e letterati, e così preparare la loro liquidazione dall’attenzione degli studenti. Prepararli a vivere la vita frenetica e povera di spirito che li attende. Posa che, ovviamente, a Malaparte non piaceva. Riferendosi a intellettuali e correnti poetiche, scrisse: 

tutte queste nuove idee di realismo o naturalismo, di decadenza, di neomisticismo sono manifestazioni della degenerazione e dell’isterismo. Tutta la degenerazione del loro sangue malato di civiltà e di decadenza, di raffinatezza e di artifici

E anche:

io non son quel che si dice un ermetico, e non avrei neppure bisogno di dichiararlo. Mi aspettavo che l’ermetismo non fosse soltanto un ‘modo’, come poi è apparso dai vostri eraclidi, e come già appariva in un certo senso anche nei maggiori: Montale, Ungaretti ecc. Ma fosse anche un ripensamento dei problemi di civiltà, problemi di morale, di cultura, di filosofia, e fra questi anche dei problemi religiosi. Ti pare possibile che tutto si riduca, negli ultimi arrivati, e sono legione, a una certa vernice?

(p. 91)

Il talento di Curzio Malaparte è quello di sperimentare stili diversi per trovare il modo di comunicare meglio ciò che lui vede nella realtà che lo circonda. Sembra banale, ma quando ti ritrovi a leggere in una prosa sublime riflessioni sulla natura, sul male, sulla religione, sull’antichità, sapientemente coordinate con la condizione umana determinata dagli eventi storici e sociali, allora “banale” è l’ultimissimo giudizio che viene da esprimere. 

L’antico e il passato eterno che riaffiora

Malaparte ha una visione nietzschana dell’antichità. È aspramente critico delle idealizzazioni classiciste dell’antico, della raffinatezza di “morti eleganti” e “poetiche” come quelle descritte da Plutarco. Invece, riconosce nitidamente la natura della grecità arcaica, della sua rozza violenza di un mondo meschino senza ideali e senza Dio: lo stesso mondo dei territori di guerra che vede. Una natura lontana e “inumana”, la cui indifferenza è manifestazione del disprezzo che prova per l’uomo. In maniera più radicale dello stesso Nietzsche, Malaparte scorge nella realtà sociale della guerra e poi nei paesaggi – per esempio etiopi – che visita per lavoro, la potenza irriducibile di una antichissima natura “senza né dèi né uomini”, espressione della potenza delle divinità ctonie (“natura plutonica”). Non, quindi, l’epoca dei Greci arcaici “duri, feroci e i loro rapporti con la natura pieni di sentimenti forti”, ma un tempo pre-arcaico, in cui azioni e sentimenti non c’erano.

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Questo passato, ormai noto solo agli animali, riaffiora, per esempio nella particolare esperienza della trincea. «L’irruzione di un passato estraneo al tempo e alla storia» che risveglia pensieri e pratiche cadute in disuso, ma dalle quali è impossibile liberarsi una volta per sempre. Questo perché siamo nati dal “sonno della terra”. È forse opportuno anche ricordare che in quegli anni i miti sulla nostra origine tellurica con riferimenti alla grecità arcaica esiodea venivano abilmente mescolati dai teorici nazisti con analoghi miti norreni, per elaborare una misteriosa teoria cosmologica della vita umana.

Il talento di Malaparte, estraneo a queste operazioni, oltre alla straordinaria dote scrittoria ed espressiva, fu quello di far emergere il ‘sottobosco’ dell’etica e della vita umana occidentale, scoprire un variegato retroterra culturale che determina le reazioni a certi eventi noti a tutti. In questi eventi Curzio Malaparte osservò il mondo e la gente rinvenendo in essi aspetti che trascendono la dimensione immediatamente politico-sociale, economica e ideologica, con cui si è soliti “spiegare” gli eventi storici. La sua vista speculativa non aggiunge mistero e occultismo a una realtà che ne era priva, piuttosto li riconosce e li descrive con la propria formidabile prosa. 

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Malaparte vede nel semplice esserci della vita sociale quotidiana nelle città (come Napoli) la complessità e la varietà frutto di elaborazioni, sincretismi e modificazioni, trasudanti da millenni di storia della religione, di culti, di storie popolari, di tradizioni, di filosofia. Scenario che, ai suoi occhi, si può descrivere e raccontare adeguatamente solo attraverso una sorta di metodo “mitico-filosofico”. Rituali magici, divinità telluriche, concezioni pascaliane e mistiche di Dio, filosofi russi del cristianesimo, Goethe, Nietzsche, romanzieri suoi contemporanei. Il libro di Andrea Orsucci, intelligente lavoro di ricerca e di interpretazione del materiale malapartiano – e di ciò che l’ha ispirato – è il lavoro certosino dello studioso che riesce a prendere l’opera di Malaparte nella propria capillare struttura teorica impegnativa e labirintica. Orsucci mostra come gli scritti di Malaparte siano un castello, pieno di passaggi segreti e di tesori impensati nascosti tra le pareti. Segue e inviata a seguire il consiglio dello stesso Curzio Malaparte al suo lettore ideale: leggere non solo ciò che è scritto con l’inchiostro nero sulla pagina, ma soprattutto ciò che è scritto con l’inchiostro bianco. 

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Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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