Passioni inconfessate e inconfessabili che animano la tranquilla provincia italiana, matrimoni resi vivaci solo grazie al tradimento sistematico, orge che sembrano il contraltare gioioso delle riunioni clandestine degli anarchici e dei sovversivi. Questo e molto altro ancora ci propone il mondo visionario e sempre sopra le righe del cinema di Tinto Brass. Da tanti anni il maestro del soft-core all’italiana celebra l’erotismo come elemento vivificante dell’esistenza stessa e come inesausta ricerca di uno spazio di libertà nel quale è possibile esprimersi, prima di rituffarsi nella grigia routine quotidiana.
Al centro dell’universo dell’autore/regista campeggia l’esibizionismo. Esso agisce a più livelli: esibizionismo dei personaggi, delle attrici, dell’autore stesso. E l’esibizione va letta, in questo caso, come ostensione potenzialmente sovversiva dei propri desideri che si inverano negli atti del corpo e che si mostrano all’Altro configurandosi in immagine, in visione. A partire da una lettura a-morale e prettamente meta-artistica, lo schema riproposto da Brass è del tutto simile a quello del topos iconografico di Susanna e i Vecchioni. In quest’ultimo è possibile ravvisare un inestricabile intreccio di tensioni voyeuristiche e tentazioni esibizionistiche. Susanna che lascia guardarsi e che “sente guardarsi”, i Vecchioni che “osservano” libidinosi, l’autore che crea a partire dal suo “sguardo” interno che si fa esterno nello spazio della tela e, infine, gli spettatori che, voyeurs per eccellenza e per necessità, osservano i due attempati guardoni del dipinto i quali altro non sono che metafore della posizione e del ruolo dello spettatore stesso. Questo è il rito del teatro che è il rito dell’Arte tutta, il “guardare guardarsi”. Brass rivitalizza la dinamica del “guardare guardarsi” servendosi dell’erotismo per spingere lo spettatore a vivere per e “nel” gioco della Visione al fine di prendere coscienza di sé e del proprio ruolo nella società.
Del resto in Brass l’atto del guardare è già di per sestesso “atto erotico” (si veda ad esempio l’insistenza degli zoom e del gioco di sguardi nel primo episodio di Fermo Posta). Ciò spiega la viscerale avversione del regista nei confronti dell’immagine televisiva e dei modelli offerti da questo mezzo. Il sogno di Brass è quello di rinnovare una presunta purezza originaria dell’occhio spettatoriale, attraverso la creazione e la riproposizione di uno specifico cinematografico votato all’eros che rimetta al centro della visione, in una prospettiva scopica e neorinascimentale, il soggetto guardante (ancora in Fermo Posta, ad esempio, egli dice che le «immagini vanno dominate, non subìte» sferrando così un feroce attacco alla teledipendenza).
La trasgressione in Brass non va intesa solo in senso autorale. Essa non agisce soltanto a livello di scrittura, mediante un’esaltazione gioiosa del sesso, ma anche e soprattutto a livello registico, nella ricerca di soluzioni ardite e inaspettate in termini di montaggio e inquadratura, come nell’esordio di Chi lavora è perduto.
Nel cinema di Tinto Brass il fondamentale contrasto tra natura e cultura si declina nella specificità del genere cinematografico erotico. Se nel Western, ad esempio, il contrasto si gioca nella dicotomìa tra la natura incontaminata delle midlands e le nascenti città americane o, ancora, tra la violenza della vita libera e selvaggia e l’avanzare della civiltà tecnologica, in Brass il contrasto tra Kultur e Zivilisation è incarnato dall’antichissimo conflitto tra campagna e città (in maniera del tutto simile all’antica commedia latina di Plauto) e ancora tra il controllo delle pulsioni e l’esplosione del desiderio.
Tinto Brass (dal pittore Tintoretto, che piaceva molto alla nonna), nome d’arte di Giovanni Brass, nasce a Venezia il 26 marzo 1933. Dopo la laurea in Giurisprudenza a Padova si trasferisce a Parigi per lavorare come archivista nella prestigiosa Cinémathèque Francaise. Entra così in contatto con i protagonisti e con la poetica della Nouvelle Vague. Brass diventa presto aiuto regista di Alberto Cavalcanti e Joris Ivens.
Tornato in Italia, lavora come assistente di Roberto Rossellini per India e Il generale Della Rovere, entrambi del 1959. Nel 1963 esordisce alla regìa con In capo al mondo, apologo anarcoide sul disagio giovanile, del quale cura anche la sceneggiatura e il montaggio. I censori bloccano il film non a causa dell’erotismo bensì per l’ideologia insurrezionalista che permea la vicenda. Per tutta risposta, Brass cambia solo il titolo, che diventa Chi lavora è perduto, rendendo ancora più esplicito il messaggio politico provocatorio. Negli anni a seguire il regista non disdegnerà le incursioni in produzioni più commerciali, come le commedie L’uccellino e L’automobile – episodi di La mia signora, film collettivo del 1964, diretto con Luigi Comencini e Mauro Bolognini – o la favola satirica dai risvolti morali Il disco volante (1964), con Alberto Sordi o, ancora, il film di montaggio Ça ira – Il fiume della rivolta (1965) sul movimento operaio e sulle rivoluzioni del Novecento e, infine, Yankee (1966) che si inserisce nel solco dello spaghetti-western.
Le prime suggestioni erotiche del cinema di Brass cominciano a fare capolino in produzioni quali il giallo Col cuore in gola (1968) e il romantico Nerosubianco (1969). Prima che nell’erotismo Brass sembra ritrovare nella follia lo spazio privilegiato per un’espressione totalizzante della libertà. Questo il messaggio di due opere, da leggere quasi come un dittico, la prima Dropout (1970) e la seconda La vacanza (1971), in cui Brass dirige Vanessa Redgrave e Franco Nero. Simile per il messaggio anticonvenzionale di fondo, è L’urlo, girato nel 1968 ma incappato nella censura e dissequestrato nel 1974, sulle avventure di una ragazza che respinge il fidanzato borghese e la società di massa che rappresenta.
Il 1975 segna la conversione di Tinto Brass al softcore di cui diverrà l’indiscusso maestro in Italia. Salon Kitty (1975), un dramma storico ambientato in un “casino” nella Germania della Seconda guerra mondiale, cavalca l’onda de Il portiere di notte ed è un enorme successo di pubblico. Il film apre il filone del cosiddetto porno-nazi ma, al di là del riferimento al nazismo e alle citazioni del barocchismo viscontiano de La caduta degli déi, il film non appare del tutto riuscito nel suo intento di rilettura storica dissacratoria. L’opera si presenta piuttosto come una torbida galleria delle ossessioni brassiane non del tutto inefficace dal punto di vista eminentemente spettacolare.
Qualche anno dopo Brass vorrebbe approfondire la sua indagine pseudostorica in senso creativo e destabilizzante ambientando questa volta la sua opera nell’antica Roma. Io, Caligola (1979), interpretato da Malcolm McDowell, nonostante il sostegno di una mega produzione, non riesce a decollare a livello narrativo a causa di un sequela di contrasti all’interno della produzione tra tagli e rimaneggiamenti. L’opera venne sconfessata sia da Brass, estromesso dalla fase di montaggio, sia dall’americano Gore Vidal, che aveva lavorato alla sceneggiatura. Oggetto di controversie giudiziarie, viene sequestrato e rimontato nel 1984 da Franco Rossellini, che taglia le sequenze più crude.
In Action (1980), Brass sembra dire addio agli anni ‘70 e alla libertà espressiva Nouvelle Vague. Egli dà vita a una beffarda e profetica riflessione sul rapporto che lega arte e pornografia. La domanda «è l’arte che è diventata pornografia o è la pornografia che è diventata arte?» suona più attuale che mai.
La chiave (1983), tratto dal romanzo dello scrittore giapponese Tanizaki Jun’ichiro, ha avuto soprattutto il merito di lanciare Stefania Sandrelli come inedita star sexy. Il film ha facile successo al botteghino ma l’erotismo non è graffiante come nelle sue pellicole precedenti.
Nel corso degli anni molte donne dello schermo si nutrono della celebrità che i passaggi nei film di Brass regalano loro: da Serena Grandi (Miranda, 1985) a Francesca Dellera (Capriccio, 1986), da Debora Caprioglio (Paprika, 1990) a Claudia Koll (Così fan tutte, 1991) passando per Anna Ammirati (Monella, 1998).
Miranda (1985), una delle migliori prove dell’intera carriera del regista, rappresenta La Locandiera goldoniana secondo Brass. Il maestro dell’eros italiano vi celebra il sesso come rito sociale godereccio e liberatorio, in una visione della provincia italiana che dalla commedia dell’arte giunge fino a Tinto Brass nei termini di un vitalismo senza freni che si esprime nell’audacia dei “lazzi”, nel grottesco delle maschere, nell’atto impudico che evoca sovrabbondanza e fertilità gioiosa.
Dopo Miranda la ripetitività di schemi e situazioni affievolisce l’interesse e la curiosità del pubblico nei confronti della sua filmografia: L’uomo che guarda, liberamente tratto da un romanzo di Alberto Moravia, Fermo posta Tinto Brass, in cui è anche attore, e Tra(sgre)dire. Il regista tenta allora il rilancio con Senso ’45 (2001), con Anna Galiena e, ancora, con Fallo! (2003) e Monamour (2005). Nel 2009 il regista presenta in anteprima alla Villa Pamphili di Roma la sua rivisitazione teatrale del Don Giovanni ambientata nella Venezia nel 1930; inoltre, in occasione di una retrospettiva a lui dedicata, porta alla Mostra del Cinema di Venezia Hotel Courbet, un cortometraggio di 18 minuti in omaggio al pittore Gustave Courbet.
Tinto Brass rimane nell’immaginario collettivo il cantore di una provincia italiana che non c’è più o forse non c’è mai stata. Non la provincia vera, tra casolari dimessi, villette agiate e terreni visitati di tanto in tanto dai Ris in cerca di qualche cadavere occultato, non la provincia fatta da paesini senza un teatro o un cinema, dove si diffida di tutti dai gay agli immigrati e dove ci si corica con la pistola sotto il cuscino. Tinto Brass immagina invece una provincia goduriosa e casereccia in cui ogni tensione aggressiva si scarica in osteria, tra una grappa, una boccata di sigaro e uno sguardo libidinoso gettato sulla scollatura della locandiera, che fa mostra di sé nella piena consapevolezza della propria sensualità.
Ai confini rigidi, spigolosi, netti, senza scampo, della regola e dell’autoritarismo Tinto Brass sostituisce forme rotonde, voluttuose, calde, morbide, beffarde dove ogni tentativo di repressione scivola e muore tra le pieghe del Piacere.
Nell’immaginario brassiano, alla maniera pagana, non esiste il peccato, anzi il regista sembra evocare e invocare la necessità del peccato come strumento di liberazione e di espressione del Sé, giungendo così alla conclusione secondo la quale l’unico vero peccato è quello di non peccare mai.
In copertina: Claudia Koll in Così fan tutte
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