Era la notte tra il 22 e il 23 aprile quando centinaia di militanti dell’estrema destra israeliana scendevano in strada all’urlo «Morte agli Arabi», ferendo 105 palestinesi.
Nessuno poteva sospettare che si trattasse del preludio di qualcosa di infinitamente più violento. Da allora, a Gerusalemme, quell’urlo è rimasto nell’aria, sospeso tra le moschee, le sinagoghe e le chiese della città santa. Un urlo che si è trasformato, nelle ultime settimane, prima in violenze quotidiane contro la popolazione palestinese, poi in un vero e proprio scontro.
In poco tempo alcuni eventi hanno accentuato le tensioni da sempre esistenti in quella Gerusalemme che, nel 1980, Israele ha dichiarato unilateralmente (e illegittimamente per la comunità internazionale) come propria capitale indivisa, ma che, in realtà, è sotto occupazione militare israeliana nella sua zona est sin dal 1967.
Finché, negli ultimi giorni, dopo varie aggressioni avvenute anche all’interno della moschea di Al Aqsa e che hanno visto il ferimento di centinaia di palestinesi, Hamas ha lanciato razzi verso Gerusalemme e Tel Aviv. In tutta risposta, le forze israeliane hanno bombardato la striscia di Gaza causando, al momento, la morte di 28 persone, di cui 10 bambini. Le vittime israeliane sarebbero, al momento, 2.
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Quello che sta accadendo in questi giorni
Nelle ultime settimane, la violenza corre tra le strade del quartiere di Shreikh Jarrah, a Gerusalemme est.
«Tra meno di un mese, io e la mia famiglia dovremo lasciare questa casa».
Tawfik vive nella casa che fu di suo nonno lì, in quel quartiere, dove trovò rifugio dopo la guerra. La Corte distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che entro maggio, termine ora posticipato a giugno, sei famiglie palestinesi che vivono lì da generazioni dovranno lasciare le loro abitazioni. Altre sette dovranno farlo entro agosto. A prendere il loro posto saranno delle famiglie ebraiche che rivendicano la proprietà di quei luoghi.
«La Corte ha affermato che questo terreno appartiene a ebrei che dicono che vivevano qui prima del 1948, ma anche centinaia di anni fa. Ovviamente, non hanno alcuna prova a sostegno di questa tesi».
Alle sue spalle, mentre parla, i membri della sua famiglia preparano cibi che consumeranno al termine della giornata, essendo ancora in corso il Ramadan.
«Molte persone che conosco sono state arrestate senza motivo, alcune vengono detenute per settimane, e la violenza da parte dei militari israeliani è ormai quotidiana. – continua Tawfik – Quando torno nel mio quartiere, qui dove abito, devo mostrare i documenti, rispondere a mille domande. Tutti gli arabi vengono fermati, prima di poter rientrare nelle loro case. Gli ebrei israeliani, invece, possono circolare liberamente e andare dove vogliono».
Dopo l’intervista, la Corte Suprema, che potrebbe confermare o meno la decisione della Corte distrettuale, ha posticipato l’udienza.
Ma cosa ha dato origine a questa escalation?
La storia del quartiere è complessa e antica.
Nel 1956 vi si erano stabiliti alcuni palestinesi che, a seguito della guerra del 1948, erano diventati profughi. All’epoca, Gerusalemme est, così come tutta la Cisgiordania, era sotto il controllo della Giordania che costruì case per queste famiglie in accordo con l’UNWRA, L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente. Con la guerra dei sei giorni, nel 1967, le truppe militari israeliane hanno occupato Gerusalemme est, appropriandosi con la forza di questi luoghi. Nel corso degli anni molte famiglie ebree, anche americane ed europee, hanno rivendicato quelle proprietà, affermando di vivere lì in passato. Nella maggior parte dei casi hanno sostenuto questa tesi senza prove, ma hanno comunque ottenuto la possibilità di spossessare le famiglie palestinesi.
Una prassi che oggi colpisce Shreikh Jarrah, ma che, negli scorsi anni, ha colpito molti altri quartieri della città. Solo nel 2020, circa 105 case palestinesi a Gerusalemme est sono state demolite e più di 385 persone hanno perso la loro dimora.
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Le violenze contro i palestinesi
Da qui, le proteste dei palestinesi.
Proteste che tutti i testimoni hanno descritto come pacifiche ma che, nonostante ciò, hanno visto la repressione da parte dei militari israeliani. Molti sono i video, diffusi sulle piattaforme social, in cui i civili vengono feriti, maltrattati e portati via con la forza, assaliti con bombe gas e proiettili di gomma.
«Il caso di Shreikh Jarrah è il simbolo di una Nakba che non è finita».
Adnan è un giovanissimo palestinese che, sul suo profilo Instagram, fa molta informazione su quanto accade quotidianamente a Gerusalemme.
La tensione è alta già da un po’. Con la fine delle restrizioni causate dal Covid, c’era un improvviso senso di solidarietà. Poi, di punto in bianco, il Governo ha deciso di chiudere la parte antistante la Porta di Damasco, molto importante per noi palestinesi. La decisione è stata presa proprio all’inizio del mese del Ramadan. Come reazione ci sono stati anche degli episodi di palestinesi che hanno bullizzato civili israeliani: le conseguenze sono state disastrose. Un gruppo dell’estrema destra israeliana, Lehava, ha fomentato le violenze contro i palestinesi, istigando anche alle uccisioni. In tutta Gerusalemme c’erano gruppi di molte persone che aggredivano i palestinesi solo perché tali. Alcuni palestinesi sono stati arrestati solo per aver denunciato di esser stati aggrediti.
Adnan
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La violenza e la speranza
Così, la violenza si è estesa a macchia d’olio. Da Gerusalemme, ogni giorno, arrivano video di aggressioni. Ma anche gesti di puro disprezzo, come il lancio di uova da parte di civili verso palestinesi che si riuniscono all’esterno per cenare insieme, dopo una giornata di digiuno per il Ramadan, o veicoli che spruzzano acque reflue e agenti chimici sui palestinesi. Gesti che, come racconta Adnan «se anche vengono denunciati, non si trova alcuna tutela. E, se si reagisce ad essi, si viene velocemente arrestati».
In una città estremamente militarizzata, con violenze ormai quotidiane e che spesso diventano note solo perché i social media hanno permesso a chiunque di poter documentare, in molti palestinesi hanno però ancora la speranza che qualcosa possa cambiare.
Meno di un mese fa Human Rights Watch, ONG che si occupa di diritti umani, ha pubblicato un report in cui accusa Israele di apartheid e persecuzione contro i palestinesi.
Dopo che sarò sfrattato, non so dove andrò. I costi delle case a Gerusalemme sono troppo alti, quindi con la mia famiglia forse mi sposterò in Cisgiordania dove già molti altri palestinesi sfrattati da Gerusalemme sono stati costretti ad andare. Lascerò la città dove viveva mio nonno. Il mio posto sarà preso da qualcun altro.
Tawfik alla fine della nostra telefonata
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Immagine in copertina: www.gelestatic.it