Perché noi siamo il nostro possesso culturale, e l’escluderci da questo ci porta all’abiezione.
Non starò qui a elencare i motivi per cui l’esperienza Erasmus apre a delle possibilità di conoscenza che prima solo pochi fortunati potevano intraprendere, e perché essa è (o può diventare, perché il demente che sfrutta la borsa in esperienze ludiche, ahimè, esiste), in ultima istanza, il ponte per una nuova coscienza identitaria, totalmente inaspettata. Così, osservando i volti di chi con curiosità si apre al mondo e condivide esperienze e tradizioni, si è indotti a riflettere sull’intimo bisogno di cultura in ognuno di noi, e sull’intuizione con cui Pasolini ci spiega proprio questo: “È il possesso culturale del mondo che dà felicità”.
Che cos’è il possesso culturale? In un certo senso, qualcosa che tutti hanno, ma in pochi sanno di avere. Il sapere che si è nel modo in cui si è, e che questo essere è stato condizionato dall’essere di altri prima di te. Ed è proprio nell’adolescenza che questa domanda identitaria pizzica la nostra coscienza, precedentemente accarezzata da ciò che ci sembrava così sicuro, ma che ora non lo è più. Ed è così originale, così diversa, persino nell’individualismo della città, del quartiere in cui si abita, che spesso sfugge, si nasconde dietro alla quotidianità di una percezione delle cose ordinaria. Ma questa domanda, per quanto sepolta, è un tarlo che insidia i pensieri di tutti. Eppure c’è una categoria di persone che, per quanto si sforzi di nasconderlo, è intimamente torturata da una necessità culturale che divora loro la coscienza ontologica, il loro più profondo “sono”. Sono i figli delle cosiddette “coppie miste”( ossia nati da genitori di nazionalità diverse), che io tenterò, in questo stralcio, di rappresentare.
Perché ho finito per parlar di loro (e quindi, in realtà, anche di me stesso)? Sono arrivato a Cracovia a metà settembre per la mia esperienza Erasmus. Da allora ho conosciuto una marea sconfinata di persone: americani, olandesi, tedeschi, inglesi… Ma la cosa che più mi ha fatto sobbalzare è stato lo scoprire che una buona parte di loro possiede parenti polacchi o di origine polacca. A questo punto un interrogativo danzava continuamente con la mia mente, senza lasciarla andare. Che cosa ha mosso il nostro spirito di appartenenza? Che cos’è questo intimo bisogno di conoscere noi stessi, una parte nascosta ma non meno importante rispetto a quella manifesta? Sentire il proprio io lacerato dall’oscurità di essere qualcuno che non si sa di essere. Ma proprio quando, nella tarda adolescenza, la paideia, l’educazione, la formazione umana di un individuo dovrebbe volgere verso una presa di coscienza definitiva, ecco che improvvisamente essa diventa incompleta, e si manifesta nel suo termine originale, quello pensato dal modello ispiratore greco: ovvero il frutto di un processo continuo, mai compiuto, che impegna tutto l’uomo, e attraverso cui questi realizza pienamente sé stesso come soggetto autonomo, consapevole di sé e in armonia col mondo. Cioè la mancata consapevolezza di una parte di noi stessi, diventa un modo per riportarci al punto iniziale, e rimettere in discussione anche ciò che credevamo essere sicuro, quella parte di noi, della nostra “cultura”, che davamo per scontato essere nostra.
Per Platone la παιδεία era la «formazione spirituale», qualche cosa di talmente alto da protrarsi anche dopo la morte, un ideale però non raggiungibile se non nella dimensione della vita associata, della comunità, della polis, in cui l’individuo realizza la propria natura umana – che è essenzialmente sociale e politica – nel senso più alto. Da questo punto di vista la definizione che ne da l’antropologo evoluzionista Edward B. Tylor (Primitive Culture,1871) è fortemente associata. Secondo lui la cultura è “quel complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la legge, la morale, i costumi e tutti gli abiti e le competenze che un uomo acquisisce come membro della società”. Analizzando questa definizione, appare chiaro quale possa essere il punto differenziale. Chi è che introduce l’individuo nella società? I genitori, prima di tutto, la scuola, poi. Proprio essi trasmettono quel bagaglio quotidiano di piccoli comportamenti che si fanno man mano sempre più inconsci, il modo di stare IN casa, il primo rapporto con chi sta FUORI di casa, la società (in sociologia si definiscono processi di socializzazione , che “impongono il marchio della società” all’individuo nei primi anni di vita per il tramite di genitori e scuola, e si dividono in processi di socializzazione “primaria”,attraverso genitori, o comunque parenti stretti, e “secondaria”, attraverso scuola e amici) .
Ecco che quindi, crescendo e formandosi una immagine di comunità , quella in cui si è inseriti, e iniziando un approccio che tenti di farla propria e che tenti di comparare quella che è la propria idea con quello che realmente la società è, ci si rende conto che essa non corrisponde definitivamente a ciò che ci si aspettava. Nasce un disaccordo con se stessi e col mondo in cui si vive, e crea una domanda, un divario di personalità. È palese che un genitore straniero possiede un bagaglio culturale ed emotivo diverso dal genitore proveniente dal paese in cui si vive, e appare naturale che questo bagaglio venga spontaneamente trasmesso nella mentalità durante la crescita del proprio figlio. Questo fenomeno è particolarmente accentuato nel caso in cui sia la madre ad essere straniera, ed essa ricopra un ruolo prevalentemente casalingo, diversamente dal padre. In tal caso, è lei a insegnare al bambino tutto ciò che ha a che fare col primo impatto con la vita, e proprio lei dà la prima impronta. Così si avranno dentro casa sempre due punti di vista, sollecitati maggiormente se vengono parlate due lingue, e questa dicotomia attraverserà tutta la vita in famiglia di un individuo. È chiaro però che questa ipotesi di risposta non basta, e tale interrogativo in itinere attraverserà tutta la mia esperienza Erasmus. Un’onda impetuosa ha squarciato la tranquillità del mio ozio intellettuale, e ora non posso che cavalcarla, anche se per adesso è difficile intravedere dove mi condurrà.