Da questa estate 2016, tra attentati e catastrofi naturali, il giornalismo esce con le ossa rotte. Già, perché esiste una differenza sostanziale tra informare e dare informazioni. Quella del giornalista è una professione riconosciuta, con un proprio albo per accedere al quale bisogna sostenere un esame di Stato, dopo aver svolto due anni di praticantato in una redazione o un master in giornalismo.
Tradizionalmente il giornalista aveva il compito di vagliare tutte le informazioni in suo possesso e verificare se fossero o meno veritiere, ricostruendo poi una narrazione dei fatti coerente. Oggi tutto questo non c’è più. Le informazioni sono aumentate esponenzialmente, alla verifica delle fonti si è sostituita l’immediatezza della notizia – non importa se non corretta o falsa -, alla narrazione dei fatti coerente si è sostituita la diretta.
Così capita che nel giro di un pomeriggio un attentatore passa da essere un fondamentalista islamico a un estremista di destra contro gli immigrati. Per non parlare poi della conta delle vittime: aggiornare la pagina web ogni minuto per vedere salire il numero di morti dopo una strage o – come più di recente – dopo un terremoto, è qualcosa di angosciante. Ma, soprattutto, è una cosa che può fare chiunque, senza aver sostenuto un esame di Stato, senza essere stipendiato da una redazione.
Che dire ancora del giornalismo-sciacallo? Pur di fare click sul web, si infrange ogni regola non tanto deontologica, quanto solo di sensibilità umana. I video che stanno girando in rete in queste ore post-sisma lo stanno dimostrando, interviste a persone ancora sotto le macerie su tutti. Per fortuna ci resta Enrico Mentana a darci un po’ di speranza nelle sorti della professione.
In effetti la vera causa della crisi del giornalismo – di cui i fatti che abbiamo narrato non sono che la manifestazione in superficie – sono proprio loro, i click. A differenza di quanto qualcuno ogni tanto sostiene, infatti, i famosi contributi pubblici per la stampa sono destinati solo alle morenti testate cartacee, mentre i giornali online non vedono un centesimo. E visto che fare un giornale ha dei costi (anche elevati) e che la fruizione dei giornali online è gratuita, l’unica fonte di entrate possibile allora è la pubblicità.
I giornali online – e il nostro non fa eccezione – per campare devono allora avere tanti, tantissimi accessi sul sito, di modo da poter vendere tanti spazi pubblicitari a prezzi alti agli inserzionisti interessati. E per avere tanti accessi bisogna usare titoli roboanti, caricare video strappalacrime da condividere poi sui social accompagnato da qualche altra frase ancor più strappalacrime, bisogna cercare il sensazionalismo a tutti i costi, la storia che ti tocca il cuore, lo scoop incredibile. Ma, soprattutto, bisogna essere tempestivi.
Non importa se la notizia sia vera o sia falsa, ciò che conta è darla e darla prima dei concorrenti. Se poi è sbagliata amen. E il caso del finto scoop de l’Unità è emblematico: durante la campagna elettorale per le scorse amministrative romane, il giornale che fu fondato da Antonio Gramsci partorì uno scoop secondo il quale, in un video di una campagna elettorale di Silvio Berlusconi di qualche anno prima, si poteva vedere la candidata sindaco del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi (poi eletta con una maggioranza schiacciante). La notizia si rivelò completamente falsa, ma il direttore della redazione online del quotidiano nemmeno si scusò, replicando che si trattava di giornalismo 2.0. La notizia circolò tantissimo, l’articolo fece migliaia di condivisioni (e di accessi)… ma si trattava appunto di una clamorosa cantonata.
A questo si aggiunga anche la presenza di sempre più testate concentrate in mano di sempre meno editori, i quali sono soprattutto impuri, cioè non cresciuti nel settore ma semplici imprenditori che hanno fiutato nell’editoria un possibile business, non solo economico. Così i giornali si ritrovano a dover difendere gli interessi economici e, soprattutto, politici dei loro editori. Alla faccia della libertà di stampa.
Che cosa resta del vecchio giornalismo, magari anche un po’ noioso, che prima di dare una notizia verificava scrupolosamente le fonti? Ad oggi sembrerebbe nulla. Così come allo stato di cose attuali non sembrerebbe nemmeno esserci un qualche segnale di un cambio di tendenza all’orizzonte. L’unica via consisterebbe nel liberare i giornali online dal giogo schiacciante della pubblicità o dall’invasione di editori senza scrupoli. Ma come?
Una soluzione potrebbe essere l’estensione dei finanziamenti pubblici all’editoria anche alla sfera dei giornali online. Ma ormai l’intervento (un po’ paternalistico) dello Stato scatenerebbe ondate di proteste. L’altra via è quella di far capire ai lettori che il giornalismo è un mestiere ben preciso che si fonda su regole altrettanto precise, e che dunque se si vuole un servizio di qualità bisogna pagare per averlo. Nemmeno questa strada sembrerebbe però percorribile: subito qualcuno aprirebbe il sito quellocheglialtrigiornalinonvidicono.net, visitabile gratuitamente, senza nessuna verifica delle fonti e magari con anche bufale. Non avrebbe concorrenza: la maggior parte dei lettori preferirebbe leggere un giornale non verificato ma gratuito che un giornale verificato ma a pagamento.
Non sembra esserci via di uscita. Così saremo costretti ad assistere a un lento e costante declino del giornalismo. Oppure bisognerebbe fermarsi un attimo, capire dove si sta andando e chiedersi se sia più importante il diritto e dovere all’informazione o un pugno di euro in più in tasca. Quanti sarebbero disposti a farlo?
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