Platone pensava che l’arte fosse due volte lontana dalla verità. Copia del sensibile, la raffigurazione estetica non attinge, non può attingere, quella dimensione ideale che costituisce la fibra e il punto di partenza della filosofia: essa, come dice la parola, è aisthesis, sensibilità, ricezione, impressione di un fuori (la cosa) proiettata sul dentro (l’anima). Una statua, un dipinto, una rappresentazione teatrale imitano, sono mimesis; ma le cose, credeva Platone, sono già esse stesse imitazione dell’essere ideale. Da ciò deriva che la mimesis artistica non solo ha ben poco di divino, ma sporca, infanga, rende spuria persino la materia sensibile della quale può, deve, nutrirsi il filosofo, ma per poi abbandonarla, innalzandosi fin dove il ragionare si spoglia di ogni contenuto. La luce della verità sta al di là del visibile, e gli occhi che ne colgono l’essenza necessitano di imparare uno sguardo che sappia trascendere l’esperienza – luogo, quest’ultimo, nel quale inevitabilmente l’arte resta imprigionata. Che gli artisti siano cacciati dalla città è cosa buona e giusta.
Merleau-Ponty, il corpo
È così? Lo si è creduto a lungo, almeno fino a quando non è stata la filosofia stessa a cedere il passo alla sapienza dei pittori, fino a quando non si è riconosciuto che dietro alla rappresentazione artistica non riposa l’allontanamento dalla verità, ma un contatto con essa differente.
Nel suo capolavoro del 1945, la Fenomenologia della percezione, Maurice Merleau-Ponty traccia un lungo percorso, appunto, fenomenologico (leggasi: di descrizione attenta e minuziosa dell’esperienza) che sbriciola progressivamente le certezze intellettuali conservatesi lungo il corso della storia della filosofia.
La filosofia, spiega Merleau-Ponty, ha dimenticato non il senso dell’essere, come voleva Martin Heidegger, ma quello del corpo; ha dimenticato cioè che prima di essere pensiero, riflessione, scienza la vita è mano, petto, corporeità, carne. Già lo diceva Cartesio che l’unica cosa di cui non posso dubitare è il fatto di star dubitando: è l’io penso, il cogito, la vera sostanza del mondo – il resto, paradossalmente, non può che derivarne in una posizione di inferiorità. Ma la fenomenologia opera all’inverso dell’incedere cartesiano: essa rappresenta
l’ambizione di una filosofia che vuole essere una “scienza esatta”, ma è anche un resoconto dello spazio, del tempo, del mondo “vissuti”. È il tentativo di una descrizione diretta della nostra esperienza[1]
Bisogna «risvegliare» la «coscienza del mondo»[2], la quale secondo riposa, appunto nel corpo, nella corporeità, nel tessuto intimo di un «soggetto votato al mondo» e non, come voleva Cartesio, un fantasma astratto da esso.
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Lo statuto del corpo, tradizionalmente dimora della pesantezza ed intrigo per il pensiero, si riscatta con Merleau-Ponty, e diviene il luogo a partire dal quale si schiude l’accesso al mondo, il nostro commercio con la natura, gli altri, la storia, in quell’intreccio chiasmico di uscita e ritorno in sé che Merleau-Ponty tematizzerà come nessun altro mai nell’ultima sua, incompiuta opera, Il visibile e l’invisibile.
Merleau-Ponty sull‘esperienza artistica
Ma l’arte, dov’è l’arte? Se, per Merleau-Ponty, ciò di cui si tratta è tematizzare l’esperienza originaria di rapporto al mondo mediata dalla corporeità, risalire a quel momento primitivo nel quale, sospinta dai sedimenti del passato, di un mondo che «è già là», prende forma la struttura del vissuto, ebbene, l’arte costituisce, secondo il filosofo francese, un prospetto privilegiato su di essa. Il pittore e il suo operare, in altri termini, mostrano concretamente, fattualmente cosa sia questo strato pre-oggettivo dell’esperienza che abita il nostro corpo e dona significato all’esistenza.
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Se è vero che «Il nostro rapporto con lo spazio non è quello di un puro soggetto disincarnato con un oggetto lontano, bensì quelli di un abitante dello spazio con il suo ambiente familiare», e se è questo il luogo che la fenomenologia deve poter raggiungere, allora il pittore sarà il suo interlocutore più adatto, giacché «i pittori, dopo Cézanne, volevano raggiungere lo stile dell’esperienza percettiva, riappropriarsi e mostrare la nascita stessa del paesaggio»[3], cogliere la genesi di questo momento che la parola non può dire né la filosofia oggettivare.
Cézanne e il suo dubbio
È proprio su Cézanne che si appunta la riflessione di Merleau-Ponty, al quale il filosofo francese ha dedicato uno dei saggi più belli dell’intera sua opera[4]. Cézanne, egli scrive, non pretende di «separare le cose fisse cha appaiono sotto il nostro sguardo e la loro maniera di apparire» ma «vuole dipingere la materia che si dà una forma, l’ordine nascente»[5].La sua pittura è quasi un paradosso, tiene insieme in una sintesi non concettuale ciò che sfugge alla ragione, ossia «la ricerca della realtà senza abbandono della sensazione»[6], il contatto – che non è mistico, di dispersione, poiché lascia entrambe intatte – tra esse, tra realtà e sensazione, oggetto e soggetto.
Ecco cosa ci mostra la pittura di Cézanne, che è già oltre l’impressionismo pur prendendo le mosse da quest’ultimo: bisogna ritornare agli oggetti senza dimenticare, anzi, fotografando come essi si diano nell’impressione naturale e spontanea
Il tavolo, questo tavolo che mi si mostra, non è, scrive Merleau-Ponty, così netto e definito come lo raffigura la prospettiva classica, ma s’incurva, vi sono dei bordi sfocati che lo delimitano e si perde fra altri infiniti colori che sono suoni, che sono odori, che sono sapori. Bisogna rendere il mondo in tutta la sua densità.
La prospettiva
Nella percezione primordiale tali distinzioni che separano l’uno dall’altro i cinque sensi sono ignote, è piuttosto «la scienza del corpo umano che ci insegna poi a distinguere i nostri sensi»[7]. Ecco che torna il corpo umano, non quello vissuto, ma quello studiato, smembrato, oggettivato della scienza, delle tavole anatomiche – esso è, dice Merleau-Ponty, “il costituito”, ciò che in un’operazione di ricostruzione posticcia riassembla, immobilizzando, ciò che nell’esperienza si mantiene come vita, vittoria, trionfo: appunto, il corpo che noi siamo.
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Lo stesso fa la “prospettiva”, quello strumento estetico di grandissima potenza che permette di fissare tramite calcoli geometrico-matematici l’immagine di una figura sopra un piano. E tuttavia la visione prospettica è ancora un dispositivo che cristallizza e perciò falsifica la vera percezione della realtà, quella esistenziale che s’incarna nel corpo: noi non abbiamo mai, come ci lascia credere la visione prospettica, uno sguardo così esteso da abbracciare l’intero orizzonte del visibile, definendo i contorni che si danno in esso; noi non abbiamo mai la capacità di «sorvolare», come un uccello dall’alto, ciò che emerge nel campo percettivo della nostra esperienza.
Qui il genio di Cézanne, che «mette in sospeso questa abitudine e rivela la base di natura disumana su cui l’uomo si colloca», che mostra una natura che è piena di vita e attributi, che è tremenda, irascibile, o sublime, e non quel libro votato al silenzio scritto in caratteri matematici che Galileo ci ha insegnato a studiare.
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Certo, c’è anche questo, c’è anche l’oggetto della scienza, ma dopo l’esperienza del nostro corpo, dopo ciò che Cézanne tentava di dipingere: si tratta per l’appunto di dimenticare tutte le scienze, tutte le conoscenze, per «riafferare, valendosi di tali scienze, la costituzione del paesaggio come organismo nascente»[8]. Noi vediamo l’odore, sentiamo il gusto, tocchiamo il suono: questo dice Cézanne e la sua arte, questo rivela il nostro corpo prima che gli tocchi in sorte l’immobilità.
Sempre di nuovo
È un cammino che non può terminare, questo che il pittore decide d’intraprendere: «l’espressione di quel che esiste è un compito infinito». Egli sa che fallirà. Il logos del mondo, o come più tardi dirà Merleau-Ponty, la carne, il fondamento muto e solitario dell’esperienza non può tradursi in una forma definitiva, quasi fosse un algoritmo, perché c’è sempre da attingere di nuovo a quel pozzo del passato scavato dietro il visibile. L’esistenza del pittore deve sempre poter ricominciare daccapo, ogni passo verso la maturità non è che un ritornare indietro alla sua infanzia, al luogo primordiale dove essa vuol parlare come ha parlato il primo uomo. La sua vita è quella di un eterno principiante. Ci si domanda infine, spostando il discorso e riattivando suggestioni blanchottiane, se non sia quest’ultima la cifra della vera felicità, quella di sapersi giocatori falliti sin da principio, che ciononostante continuano il gioco.
Note
[1] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. A. Bonomi, Milano, Bompiani, 2018, p. 15
[2] Ivi, p. 17.
[3] M. Merleau-Ponty, Conversazioni, trad. it. F. Ferrari, Milano, SE, 2002, p. 27.
[4] Cfr. M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Id. Segni, trad. it. A. Bonomi, Milano, Il Saggiatore, 2016.
[5] Ivi, p. 27.
[6] Ivi, p. 31.
[7] Ivi, p. 34.
[8] Ivi, p. 36.
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