È un autore sommerso Alfredo Todisco, cancellato dal tempo e dalla produzione ipertrofica, situato – secondo un principio arbitrario – nella zona prossima all’inessenziale, dove a un racconto spoglio, “ancestrale” si appone, come colpa, lo stigma del disimpegno. L’appartenenza alla cerchia senza blasone, ovvero alla ridda di scrittori che obbedisce all’istinto della materia, più che al suo governo, costringe Alfredo Todisco a una ghettizzazione ante mortem, favorita – come egli dichiara – dal corso giornalistico [1].
In realtà, la lunga carriera di quest’autore interseca temi di stringente attualità, sviluppa immagini, segni già colti altrove, nell’extratesto trasposto in ficcanti inchieste – poi sviluppate, “romanzate”, sul piano delle lettere. L’ecologia, anzitutto, parola abusata, svuotata, cui si ricorre «troppo e senza aver capito cosa voglia dire»[2]. Poi l’amore, altra categoria, che per Alfredo Todisco non è altro che «naturale passione», nel duplice senso dell’istinto e del rispetto creaturale.
«L’ecologia è l’unico modo per comprendere il mondo, il resto è mito. Eppure c’è un silenzio complice. Quello che è certo di questa nostra Civiltà, è che il Paradiso in terra, come aveva promesso, non riesce a portarcelo. Questa nostra civiltà delle macchine, sotto qualsiasi cielo e bandiera, ha mancato ai suoi appuntamenti» [3].
Su tale assunto Todisco costruisce la sua opera, e lo fa con raffinatezza stilistica, pur rientrando – come su accennato – nella schiera dei narratori per “esigenza”, che abdicano al bagaglio espressivo per soddisfare la storia. E pur su questo punto ci sarebbe da eccepire, giacché l’autore, complice lo statuto anfibio di scrittore-giornalista, edifica impalcature complesse, in cui il linguaggio scivola da un piano all’altro fondendo tecnicismi, parole auliche, reminiscenze classiche e scientifiche. Non c’è zona, nella sua opera, che sia improntata a un solo registro.
Lo mostra bene Storia naturale di una passione, candidato al Campiello nel ‘76, e straordinario intreccio di eros e paesaggio, sorta di “trattato amoroso” sulla potenza generatrice. Ma sia consentito ricordare un’opera antecedente, confusa nella produzione di Todisco e “smembrata”, per così dire, dalla trasposizione cinematografica (La notte dell’alta marea, 1977 – regia di Luigi Scattini), in cui le riflessioni intimistiche cedono il passo a un pruderie di consumo.
«Il corpo» di Alfredo Todisco, la trama
Il corpo (acquista), dato alle stampe nel 1972, è sin dall’avvertenza «una storia d’amore». Un racconto “puro”, dunque, quasi esile, condotto – dichiara Todisco – sul filo della curiosità, pensato per intrigare il lettore, per spingerlo verso il finale. A una prima ricognizione sembrerebbe così.
Vandalo, pubblicitario in età adulta, costeggia la linea d’ombra di una temuta senescenza. Il crepuscolo anagrafico, altra costante todiscana, è illuminato dall’attrazione per Milena, una ventenne fuori-norma, bellissima – è vero – ma lontana dal suo mondo. Qui si situa il primo nodo dell’opera, ossia la perlustrazione della morte, del disfacimento antiveduto. È la comparsa della giovane a mettere in crisi Vandalo o il suo corpo è soltanto un’evidenza? E ancora: Milena è una donna, seppur di carta, oppure un simbolo, un elemento funzionale?
Alfredo Todisco sembra dire entrambi, a dimostrazione di come una storia “semplice” si compia, sovente, nelle molteplici interpretazioni, nei piani di lettura lasciati a decantare. Così, Il corpo cammina sul ciglio dell’opposizione, va costruendosi per strati, per dicotomie incomponibili. Al centro, come è chiaro, sta una passione ingovernabile, l’impossibilità dichiarata di «attingere» la ragazza, promessa a un giovane di cui è innamorata. Ma Todisco va oltre, supera l’indicazione di copertina (un proposito «da cavernicoli»: raccontare l’amore) e ragiona, anzitutto, sulle sfumature di senso, sul significato delle parole che maneggia con grazia.
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Il corpo, in primis: quello “perfetto”, sensuale, di Milena e quello attempato, «eroso» del pubblicitario. E ancora la natura, intesa come «realtà animale» dell’uomo e regno – vilipeso – di tutte le creature. Ecco l’allaccio, il legame fra la passione e le vicende del mondo intero, laddove il culto del corpo – con conseguente, attualissima, profanazione – diviene emblema della violenza sull’ambiente. In tale ottica, significativo risulta il lessico, che alterna picchi dannunziani tanto cari all’autore. Si leggano alcuni estratti: «una gamba inguainata in una calza grigia tesissima, attraverso cui traspare l’efflorescenza della pelle rosea»; «i ginocchi rastremati a cuspide […] a concorde incontro delle sue curve disegnate con il rigore degli stradivari»; «sul ventre nudo di Milena una sottile linea di lanugine, più scura del colore di capelli, corre dall’ombelico al pube. I solchi tra i muscoli addominali e i fianchi, che in molte donne non si notano neanche, appaiono bene incavati». Ancor più incisivo risulta, in almeno tre punti, il rapporto istituito tra corpo e “carcasse” geologiche, come a sottolineare non tanto la compenetrazione panica ma l’impossibilità, per l’uomo, di accostarsi dolcemente alla natura.
Quando Vandalo e Milena restano isolati in Somalia, dove la troupe è volata per un servizio fotografico, si compie l’amplesso tra «atmosfere deliquescenti»; la donna di concede – è l’unica volta – e lui ne esce svuotato, mesto, come dinnanzi a una paesaggio devastato, in cui falesie, rocce e deserti segnano il non-ritorno a uno stato primordiale.
È la contemplazione delle rovine, di un nulla intimo e globale che tutti abbiamo contribuito a edificare.
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Note:
[1] «Sento diffidenza da parte degli addetti ai lavori e questo perché sono un giornalista. Quando esce il libro di un outsider la “macchina” non si mette in moto come per uno scrittore con tanto di passaporto». Todisco è polemico, in “Tutto libri”, 1 Luglio 1978.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.