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Giuliano Scabia
Foto di Daniele Laorenza

Conversazione con Giuliano Scabia: nei boschi interni tra uomini e dinosauri

4 minuti di lettura

C’è un momento, durante le prove di uno spettacolo, in cui attori e regista entrano in una sorta di trance collettiva, un mondo tutto loro, in cui la sinergia tra le diverse persone è palpabile da chi li osserva dall’esterno. Per Giuliano Scabia e i suoi attori questo momento è arrivato presto, prima del solito. Così, nel corso del laboratorio di preparazione allo spettacolo LA FINE DEL MONDO – Commedia per dinosauri in presentazione alla 22° edizione del Festival Inequilibrio, non è difficile imbattersi in un sistema di gesti, azioni e parole inserite in un’abitudine che sembra esistere tra i protagonisti da anni. Anni convertiti in pochi giorni grazie all’energia di Giuliano Scabia: nell’assistere agli incontri tra regista e attori risulta difficile credere che il laboratorio teatrale, svoltosi nelle stanze del Castello Pasquini, sia durato appena una settimana.

Poeta, drammaturgo e scrittore, Giuliano Scabia ha insegnato per trent’anni al DAMS dell’Università di Bologna. E’ stato il primo a portare il teatro nei manicomi italiani e, insieme a Vittorio e Franco Basaglia, a testimoniare l’umanità in essi celata.

L’intervista a Giuliano Scabia

In alcune precedenti interviste Lei ha detto di non voler esser definito “maestro”. Perché rifiuta questo appellativo?

Nessuno è maestro. Esci di strada, inciampi. Dov’è la maestria? Oppure dici una cosa completamente errata. Dov’è la maestria? Per fortuna è pieno di maestri che però sbagliano. E sbagliare è maestria. Uno solo è maestro assoluto: il bambino mentre esce dalla pancia della mamma. Quando è uscito già non lo è più, ma mentre sta uscendo è maestro perché o viene fuori o muore. In quel momento è maestro della propria vita. Assoluto. E dopo cominciano i deragliamenti, per fortuna.

Ne LA FINE DEL MONDO – Commedia per dinosauri, che porta in scena alla 22° edizione del Festival Inequilibrio, il testo è tratto da Il lato oscuro di Nane Oca, edito da Einaudi. Nel libro Nane Oca va alla ricerca della risposta alla domanda cosa sia il sangue cattivo. Da cosa nasce questa domanda?

Farsi il sangue cattivo significa diventare cattivo. E farsi il sangue cattivo vuol dire stare male, diventare brutti. Sangue cattivo è la morte. La domanda nasce dal fatto che Nane Oca si rende conto che al di là del mondo mitico della sua infanzia, della sua adolescenza, c’è il mondo reale. Decide, lui che è un privilegiato, di vedere cos’è il mondo con tutte le sue carneficine, le sue guerre, la sua cattiveria e anche la sua bellezza. E comincia a uscire: appena è fuori, tre della mala gli fanno una puntura e gli iniettano il sangue cattivo. In quel momento comincia a diventare più nero e ha questo cammino iniziatico per trovare il re del mondo e il Leviatano. Se non lo fa, diventerà un delinquente, diventerà cattivo.

I protagonisti del Suo ultimo spettacolo sono quasi tutti attori non professionisti che hanno preso parte a una settimana di laboratorio con Lei. Cosa pensa di guadagnare e cosa di perdere nel lavorare con persone che sono, da un punto di vista attoriale, più pure?

Penso che come giocare così fare teatro è cosa da tutti. L’importante è che ciascuno trovi il suo ruolo. Qui ho trovato persone che non conoscevo e, un po’ ad occhio, ho distribuito dei ruoli. E’ anche una sfida. Vediamo cosa succede. D’altra parte è come il gioco del calcio:ci sono le star ma poi tutti i bambini amano giocare a pallone. E allora perché no? Anche se non sei bravo, perché no?

E’ uno spettacolo in cui il suono, il rumore, le armonizzazioni, i cori, hanno un ruolo molto importante. Si potrebbe parlare quasi di una musica che attraversa tutto lo spettacolo fino alla fine. Cos’è il suono nella Sua commedia?

La scrittura della poesia è musica perché qualunque verso, qualunque prosa di un poeta è musica. E’ fatta di suono. E quindi il dirlo deve rispettare quello che c’è nella partitura. Rispettare vuol dire interpretare, non vuol dire eseguire ciecamente. Vuol dire mettere il proprio fiato, il proprio corpo dentro quella segnaletica musicale. E il bello di una recita è che è come un’orchestra che suona. E quindi è un’orchestra che suona, un quartetto, un quintetto, un piccolo ensemble di quindici strumenti.

E com’è vedere questo suono che prende vita dal momento della scrittura fino a quello della messa in scena?

Anche il gesto è musica. E’ una danza musicale. La scrittura è molto metrica, è piena di timbri, di indicazioni ritmiche. E quindi bisogna seguirle per “giocare” il testo, jouer le texte.

Che cos’è il movimento nella Sua commedia?

E’ cercare in questo caso la postura da dinosauro. Ognuno cerchi il suo cavallo e sia cavaliere del suo cavallo. Ognuno cerchi il suo dinosauro. La postura eretta deve cambiare.

Nella sua commedia i dinosauri dicono, a un certo punto, «Siam intelligenti, ma siamo bestie». Negli anni ‘70 da una Sua idea, di Basaglia, di Dell’Acqua, nacque Marco Cavallo che diventò presto il simbolo dell’umanità dimenticata all’interno dei manicomi. Cavalli. Dinosauri. L’umanità della persona passa sempre attraverso la metafora dell’animale?

Noi siamo animali. L’anima è piena di animali. Noi siamo pieni di animali. Noi siamo un corpo animale. Veniamo dal topetto e prima eravamo un verme forse. Siamo animali ed è la nostra ricchezza l’animalità. Il cavallo è un caso che sia un cavallo. Però questo rapporto di gioco con l’animale è un rapporto di gioco col proprio bosco interno. Noi abbiamo una foresta interna, una foresta diurna e notturna, piena di luci e di ombre, piena di personaggi. Abbiamo tutti i nostri morti dentro, tutte le fate, tutto il “c’era una volta”. E’ tutto dentro. E dobbiamo irrorarlo. Tenerlo vivo. Annaffiarlo. E gli animali viventi dentro se li teniamo vivi ci danno un’enorme forza. Ci danno la forza di camminare nel nostro interno paradiso terrestre. Che non è fuori, è dentro.

Pensa che per lo spettatore che assiste allo spettacolo…

E che ne so io dello spettatore? E’ importante non fare per lo spettatore. Se io penso allo spettatore penso a qualcosa che non c’è.

Anche quando si fa teatro?

Penso a qualcosa che non c’è. Io devo pensare alla musica interna. E chi è lo spettatore? Può essere un tedesco, un intellettuale, un operaio, uno che non capisce nulla, uno che capisce. Non bisogna farsi condizionare dallo spettatore. E’ come quei politici che si fanno condizionare dalla quantità dei voti. Poveretti loro, dopo un po’ finiscono. Devi lavorare per il bene, devi lavorare per la speranza, per queste cose qui.

L’intervista a Giuliano Scabia è comparsa originariamente sul blog dell’associazione Armunia, organizzatrice del Festival Inequilibrio.
Foto di Daniele Laorenza.

 

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Gianluca Grimaldi

Napoletano di nascita, milanese d'adozione, mi occupo prevalentemente di cinema e letteratura.
Laureato in giurisprudenza, amo viaggiare e annotare, ovunque sia, i dettagli che mi restano impressi.

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