In quest’epoca di politica spettacolarizzata, invece che di idee si parla di sempre più di personaggi. L’ondata populista che ha invaso l’Occidente dimostra che l’opinione pubblica è stufa dell’ipocrisia politically correct di una classe dirigente al soldo delle élite finanziarie, e reclama a gran voce un uomo forte che ne faccia piazza pulita (cit. «drain the swamp»). Se Donald Trump è senza dubbio l’esempio più lampante di tale deriva populista negli States, qui in Italia, dopo il ventennio berlusconiano, è salito alla ribalta Matteo Salvini. Qui come là, l’opposizione ha reagito scandalizzata, demonizzando l’uomo forte e gridando al fascismo.
Purtroppo però, come dimostrato dai recenti risultati elettorali, tale esasperazione del dibattito politico fa solo il gioco dei populisti. In una gara a chi grida più forte o la spara più grossa, tipi come Trump e Salvini hanno buon gioco e finiscono sempre in prima pagina. E questo sembra sufficiente, nell’era dei mass media e dei social network, per vincere le elezioni a mani basse. In America, dopo la bruciante sconfitta del 2016, il Partito Democratico ha scatenato una lunga crociata ad personam contro il presidente eletto, mirando a screditarlo e a dimostrare la sua collusione illecita con la Russia di Vladimir Putin.
Una delle poche voci fuori dal coro, in campo Democratico, è stata l’onorevole Tulsi Gabbard delle Hawaii. Non che la Gabbard abbia in simpatia Trump, tutt’altro: «È inadeguato alla carica di presidente,» afferma, «e io mi sono candidata per sconfiggerlo. Però penso sia importante, affinché il nostro paese volti pagina superando le attuali divisioni, che sia il popolo americano a prendere questa decisione».
La Gabbard si è candidata alle presidenziali del 2020 dopo un percorso politico a dir poco fuori dall’ordinario. Nativa delle Samoa americane e trasferitasi alle Hawaii già da bambina, Gabbard è entrata in politica molto giovane, ad appena ventun’anni. Fin dagli esordi ha mostrato di avere un’anima bipartisan, da una parte progressista sensibile ai temi socio-ambientali e dall’altra fervente patriota simpatizzante per la famiglia tradizionale. Poco dopo gli attentati dell’11 Settembre, la Gabbard spiazzò tutti arruolandosi come volontaria nell’Army National Guard e partecipando a due missioni in Medio Oriente. Tornata negli Stati Uniti, nel 2012 si candidò al congresso e divenne la prima deputata americana a prestare giuramento sulla Bhagavad Gita, il libro sacro indù. Nel 2013 fu eletta vice-presidente del Comitato Nazionale Democratico, ruolo che la consacrò come un astro nascente della politica nazionale. Ma nel 2015, in piena campagna per le primarie, denunciò una serie di irregolarità processuali che favorivano Hillary Clinton e, dopo esser stata spinta a rassegnare le dimissioni, si schierò apertamente a favore dell’altro candidato democratico, Bernie Sanders.
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Dopo la vittoria di Donald Trump, Tulsi Gabbard si rifiutò di farne il capro espiatorio per tutti i mali d’America, e tentò piuttosto la strada del dialogo. Invece di etichettare tutti gli elettori Repubblicani come gente detestabile (cit. «deplorables»), cercò di smorzare i toni del dibattito. Un approccio questo che la Gabbard ha coerentemente mantenuto anche in politica estera: quando nel 2017 il presidente siriano Bashar al-Assad fu accusato di utilizzare armi chimiche contro la propria popolazione, Gabbard prese le sue difese citando una mancanza di prove, e si pronunciò contro i bombardamenti americani e a favore di una soluzione diplomatica. Ancora una volta pronta a passare dalle parole all’azione, Gabbard si recò in Siria di propria iniziativa per intavolare una trattativa con Assad. Accusata ripetutamente di difendere un brutale dittatore, la Gabbard è rimasta fedele alla propria linea (oggi pienamente riabilitata dopo le recenti rivelazioni sulla manomissione del rapporto dell’OPCW).
Come spiega approfonditamente Kelefa Sanneh in un lungo articolo sul New Yorker, le convinzioni politiche della Gabbard hanno una forte componente spirituale. La sua parola d’ordine è “aloha”, che in hawaiano è sia un saluto di accoglienza che di commiato, ma più in generale si riferisce a quell’essenza spirituale che la legge di Hawaii definisce come «la coordinazione di mente e cuore entro ciascuna persona». Per Gabbard lo spirito di aloha si traduce in un atteggiamento rispettoso verso tutti, a prescindere dalle opinioni politiche, e ispirato ai princìpi costituenti dei padri fondatori americani. «Agli eventi della nostra campagna ci sono Democratici e Repubblicani, indipendenti e libertari,» dice. «Il mio è un messaggio di unità, a venirci incontro senza lasciare indietro nessuno».
A trentotto anni compiuti, Tulsi Gabbard rappresenta il meglio della nuova generazione politica d’oltreoceano. Donna coraggiosa ed intelligente (oltre che bella), rappresentante di una minoranza etnica e religiosa, surfista provetta e al contempo veterana di guerra, sembra uscita direttamente da un film della Marvel. Tornata dall’inferno del fronte eccola candidarsi come presidente della pace. Altro che uomo forte! La Gabbard è come un Rambo del nuovo millennio, e non dovrebbe sorprenderci che sia una donna.
Federico Nicola Pecchini