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Conticuere omnes. Silenzio,
parla Virgilio (e in latino)

5 minuti di lettura
© Giulio Favotto
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Anagoor: nome misterioso che rinvia a un famoso racconto di Dino Buzzati e orienta verso una poetica che procede per indizi e visioni, un antidoto al deserto della realtà contemporanea. Si tratta del giovane collettivo di Castelfranco Veneto, che da una quindicina d’anni si è imposto fra le voci più interessanti del panorama teatrale italiano. Sulla scena essi creano immagini cristalline, perfette per rigore e qualità estetica, dense di simbologie, una sorta di «neo-neoclassicismo», ma sotto la superficie ribolle l’inquietudine della nostra epoca del post-, minata dalla «balbuzie della barbarie» e sull’orlo della catastrofe. L’altro ramo della ricerca del gruppo è un profondo lavoro intorno alla lingua, che ha raggiunto vertici straordinari in L.I. Lingua Imperii (2012): quando la lingua diventa sopraffazione e strumento del potere? Fino a che punto si può spingere nel dire l’indicibile (tortura, massacro, storture della politica)?

Fino al 31 gennaio 2016 gli Anagoor presentano al Piccolo Teatro la fortunata produzione del 2014 Virgilio Brucia, ideazione e regia del talentuoso Simone Derai. L’approccio non è facile. Come in altri lavori, l’opera si divide in capitoli-episodi, tasselli di un fregio visivo (immagini che scorrono sullo schermo) e performativo (gestualità rituali in scena) che fa del frammento una poetica della visione spezzata, ritmata in grani di pensiero, o in respiri. L’andamento è avvolgente, in un sincretismo armonico di lingue europee ed extraeuropee, e centripeto: tutto tende verso il finale, dove protagonista sarà il testo straripante e incontenibile di Virgilio. Ma prima occorre fare un viaggio traversando zone di luce e di ombra, all’interno di un ipertesto, cioè una costruzione calibrata di voci letterarie.

Si comincia con Hermann Broch, La morte di Virgilio (1945), che descrive l’ultimo viaggio del Poeta. Ecco il primo spiazzamento: la “voce” di Broch scorre in italiano sullo schermo, ma la sonorità è quella di Gayanée Movsisyan, che recita il testo in armeno, la lingua di un popolo ferito. La malinconia del quadro si dissolve per un secondo approccio proemiale, affidato a un video. Aedo contemporaneo è ora un professore di liceo che riflette sull’Eneide: un classico che si riverbera nella modernità, oscillando fra le nostalgie celebrative da parte dell’Occidente o la resistenza di un anti-canone postcoloniale.

Si raggruma un nucleo problematico: Virgilio fu intellettuale integrato, senza però essere poeta cortigiano; il suo poema non si inchina al potere, ma poi gli ingranaggi della propaganda imperiale lo faranno proprio. Il dilemma però si scioglie riconoscendo in Virgilio il cantore del dolore e dei vinti, travolti dal vento della Storia e vittime del fato di Roma. Sull’ambivalente ruolo dello scrittore riflette la sezione Ecloga. Homo poeticus, inaugurata dai graffianti Consigli a un giovane scrittore di Danilo Kiš (1984). Mentre il decalogo di Kiš (recitato in serbo) si dipana mostrando l’arduo passaggio fra le Simplegadi di libertà poetica e potere, in scena si svolge il rito della smielatura dell’arnia: una gestualità che rimanda, forse in modo però troppo ambizioso, ad Aristeo, personaggio delle Georgiche capace di resistere alla tragica morte delle sue api e di ricavare il miele (simbolo della poesia).

© Giulio Favotto
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Nel progressivo avvicinamento al testo virgiliano, occorre scendere agli inferi. Il capitolo VI Libro. Discesa nel regno dei morti alterna sonorità e immagini. La scena si affolla di cantori che, spalle al pubblico, intonano a cappella brani del Funeral Canticle (1996) di John Tavener (https://youtu.be/OcL4J0pzlAg. L’opera è anche colonna sonora del film L’albero della vita, 2011, di Terrence Malick). Intanto sullo schermo scorrono immagini crude di nascite (pulcini, maialini, vitelli) nella fredda dimensione spersonalizzante di moderni allevamenti intensivi. «In quelle nascite di sangue c’è già la morte, non tanto in una prospettiva futura e naturale, ma nella forma della macchina che tutto divora», spiega il regista. Il mondo agreste cantato da Virgilio è ormai scomparso: ora c’è il recinto di ferro, la mungitrice automatica, la solitudine dell’animale e l’abdicazione dell’uomo al suo ruolo di custode e pastore. Questo è l’Ade contemporaneo, dominato anch’esso dal dolore.

Dall’uomo dominatore della natura, si torna al princeps Augusto, di cui nel 2014 si sono celebrati i fasti del bimillenario. Con gestualità rituali che ricalcano i profili statuari di eroi antichi, un attore in scena si allaccia i sandali e veste un panneggio bianco che ricade lieve come un peplo. I suoi gesti lenti sono accompagnati da brevi frasi lapidarie quasi incise nero su bianco sullo schermo e lette in latino da una voce imperiosa, in ritmo incalzante e spezzato: è la “voce” di Augusto espressa nella celebrazione autobiografica delle Res Gestae, in cui il Potere descrive se stesso come garante di una pace che affonda però nel sangue. Intorno a lui si dispongono gli altri attori, anch’essi in abiti dalle fogge antiche e in colori soffusi, come in un delicato tableau vivant. Si apprestano a un rito. La figura centrale indossa una maschera integrale d’oro che riproduce le fattezze di Augusto ma, chiuso in questa sua corazza aurea, ci ricorda anche il sarcofago di Tutankhamon o la maschera di Agamennone.

© Giulio Favotto
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Il rito comincia, ed è questo il clou dello spettacolo a cui tendeva tutto il percorso. Le fonti raccontano che nel 22 a.C. il poeta recitò alla corte parti della sua opera: il rogo di Ilio (secondo libro), l’amore di Didone (sesto libro) e la discesa nel regno dei morti (sesto libro). La magia dei versi provocò l’ammirazione degli astanti e lo svenimento di Ottavia, commossa all’ascolto del «tu Marcellus eris» sull’amato figlio appena morto (dal libro VI), una scena che ha ispirato numerosi quadri, fra cui Jean-Auguste Ingres Virgilio che legge l’Eneide ad Augusto, Livia e Ottavia (1812), a cui il regista si è ispirato per il suo tableau vivant.

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Gli Anagoor scelgono di riproporre la situazione della corte imperiale raccolta in ascolto del libro II, recitato in forma quasi integrale e nell’originale latino da Marco Menegoni, che incarna Virgilio, in una prova di grande impegno e bravura. Silenzio perfetto in sala. Il pubblico segue i sovratitoli, ritrova memorie scolastiche, si fa cullare dal ritmo e dalla potenza sonora del latino (in metrica e pronuncia classica). E a poco a poco si trascurano le didascalie di traduzione, perché il latino splende, vive di vita propria, è un fiume straripante di immagini splendide e incalzanti: ecco le grida vane di Cassandra, il cavallo dentro le mura di Troia, la ferocia dei vincitori implacabili, e ovunque sangue, distruzione, orrore di massacri.

© Giulio Favotto
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Si crea un dispositivo meta-teatrale a scatole cinesi assai riuscito: il pubblico guarda e ascolta Virgilio, che a sua volta è guardato e ascoltato dalla corte di Augusto. Ma al tempo stesso i versi riproducono lo scenario di un’altra corte in ascolto, quella cartaginese di Didone, che ha chiesto a Enea di narrare la fine di Troia. E in questa vertigine del racconto-ascolto, siamo distanti eppure immersi dentro la storia dell’assedio. Viviamo la disperazione di Enea, che attraversa la città in rovina in cerca della moglie Creusa, e lo scenario post-apocalittico pulsa di rimandi alla modernità. Questa Troia virgiliana è il volto e l’anima di tutte le città del passato e di oggi, sventrate e testimoni di massacri. Storie di civiltà ferite da cui si dipartono vettori centrifughi del dolore, che parlano di fratture ed esili, fisici o interiori.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire ciò che ha da dire», ci ricorda Italo Calvino. L’operazione raffinata degli Anagoor ha il grande pregio di portarci lungo un prezioso intarsio di immagini e testi fino al cuore del testo di Virgilio e regalarci oltre quaranta minuti di estasi latina, alla riscoperta del gusto dell’oralità, capace ancora di “bruciare” nella nostra fantasia.

 

Virgilio Brucia
Produzione di Anagoor, 2014
Regia ed editing: Simone Derai
Piccolo Teatro di Milano
26-31 gennaio 2016

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Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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