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empatia

Atlante storico e filosofico del concetto di empatia

Un concetto che abbraccia epoche e scienze diverse, dall’arte alla filosofia, fino alla psicologia sociale

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5 minuti di lettura

Il concetto di empatia è stato coniato, a fine ‘800, dall’esperto di arti figurative Robert Vischer e deriva dal termine empátheia, ovvero «sentire dentro». Tale termine, non sorprende, si riferisce in ambito artistico, alla capacità del cantore di rendere partecipe lo spettatore delle emozioni da lui narrate. L’empatia, quindi, essendo percezione di un qualcosa e non comprensione, prende da subito le distanze da qualsiasi attività intellettuale, rifacendosi invece al campo emozionale. Come vedremo di seguito, l’empatia è stata oggetto di numerose indagini da parte di studiosi dei più disparati ambiti del sapere.     

«Non sono nata per condividere l’odio, ma per condividere l’amore».
«Ora tutto è perduto, poiché quando l’uomo perde la gioia io non ritengo sia vivo, ma piuttosto un morto animato».

(Sofocle, Antigone)

Empatia artistica     

Come anticipato, il concetto di empatia venne introdotto da Vischer come momento fondamentale di introiezione dell’oggetto artistico da parte dello spettatore. Diversa dal concetto di empatia, ma ad essa collegata, è la simpatia estetica teorizzata dallo stesso Vischer. Lo spettatore, chiamato a provare interiormente ciò che il quadro vuole esprimere (empatia) può talvolta partecipare del dolore che quel quadro trasmette, provando per esso una simpatia (dal greco sympatheia, cioè «patire insieme»). Provare simpatia per qualcuno o qualcosa, allora, vuol dire sentirsi vicini a quella persona poiché partecipi del suo dolore. La condivisione del dolore e dei sentimenti tutti è, quindi, per l’arte un momento fondamentale di introiezione, e non di comprensione, dell’opera. Nell’esperienza artistica l’empatia è fondamentale, dal momento che chi intende fare l’esperienza estetica di un oggetto deve identificarsi in qualche modo con esso. Questa è la ragione per cui si dice che “la musica ci trasporta sulle sue ali”, che il violino “muove le corde dei nostri sentimenti” o che i mutevoli colori del tramonto creano un analogo mutamento delle nostre emozioni. Chi guarda l’oggetto artistico “si trasforma in quell’oggetto, si identifica con esso e si libera in tal modo da se stesso” [1]. Questo è il segreto del potere catartico dell’arte: l’esperienza estetica in realtà rapisce l’artista o lo spettatore e li porta fuori da se stessi. Aristotele ha descritto magistralmente come assistere a una grande tragedia purifichi l’anima dello spettatore, proprio perché la tragedia viene messa in scena sul palcoscenico della sua anima, nel momento stesso in cui egli la guarda accadere sul palcoscenico reale. Il teatro è la forma d’arte attraverso cui è più facile capire l’empatia; in esso infatti si verifica l’identificazione più macroscopica degli attori con i personaggi immaginari che essi stanno rappresentando e quella più sottile degli spettatori con gli attori.

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Partecipare degli altri o degli oggetti ci dà di essi una comprensione ben più intima e significativa della pura analisi scientifica o dell’osservazione empirica. Perché “comprensione” significa in realtà l’identificazione del soggettivo e dell’oggettivo che si traduce in una nuova condizione la quale li trascende entrambi [2]. Per conoscere il significato della bellezza, dell’amore o di qualsiasi valore della vita, dobbiamo abbandonarci alla partecipazione. In altre parole è impossibile conoscere un’altra persona, oggetto o opera, senza esserne innamorati, in senso lato. E questo significa che entrambi verranno modificati dall’identificazione che l’amore genera.

Filosofia dell’empatia

Come detto, il concetto di empatia fu utilizzato per la prima volta in campo artistico da Vischer, ad inizio ‘800. Eppure, esso era perfettamente conosciuto fin dai tempi dell’antica Grecia. Il rapsodo di Platone, ad esempio, sapeva perfettamente che, piangendo, avrebbe ottenuto un senso di commozione nel pubblico poiché si sarebbe immedesimato in lui. Lo stesso Aristotele, come già preannunciato, era pienamente consapevole del fatto che spettatore ed attore partecipassero insieme dei sentimenti messi in scena a teatro. Semplicemente, questa partecipazione emotiva veniva descritta con un altro termine, ovvero eleos (pietà, compassione). Ma è a metà dell’ 800 che il termine trova la sua affermazione nel discorso scientifico europeo. Non solo, come abbiamo visto, nel campo dell’arte ma anche in quello filosofico-psicologico. Uno dei primi studiosi ad occuparsi empatia fu Theodor Lipps, docente di filosofia presso l’università di Monaco e co-fondatore insieme ad Edmund Husserl della Fenomenologia di Monaco. Tale scuola ebbe il merito, tra gli altri, di intrecciare i rami del sapere filosofico con una conoscenza delle dinamiche psicologiche, legame divenuto indissolubile per la comprensione dei fenomeni che hanno per oggetto l’uomo. Da queste posizioni, altri studiosi come Max Scheler si addentrarono nello studio delle dinamiche psicologiche, approfondendo in particolare il concetto di empatia. Grazie ad esso, infatti, si diffuse in Europa una corrente di studi psicopatologici-fenomenologici che sfociarono, successivamente negli studi di Heinz Kohut, fondatore della Psicologia psicoanalitica del Sé.

L’incredulità di San Tommaso, Caravaggio

La scienza dell’empatia

Il percorso del concetto di empatia, come visto, abbraccia epoche e scienze diverse, dall’arte alla filosofia, fino a giungere alla psicologia sociale attuata in campo medico. Il concetto di empatia venne studiato per delinearne un suo contrario, in quanto la mancanza di momento empatico è alla base di alcuni disturbi della personalità. I medici, tuttavia, sul contrario di empatia sono divisi: per alcuni il contrario di empatia è la dispatia[3], per altri è la simpatia.

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La dispatia, secondo J. L. González, non è il contrario dell’empatia, cioè non è assenza di empatia, ma è un suo completamento. Infatti, un eccesso di empatia può portare ad un sequestro emotivo, cioè all’incapacità da parte della persona empatica di elaborare l’informazione derivante dal sentimento di empatia provato verso un’altra persona. In altre parole, l’incapacità da parte dell’empatico di tornare nei propri panni dopo aver indossato quelli altrui. Da qui la distopia si caratterizza come una forma di autodifesa da un coinvolgimento emotivo troppo forte. Non è quindi una mancanza di empatia, ma un suo naturale e necessario bilanciamento. La simpatia, invece, secondo alcuni medici, sarebbe in antitesi con l’empatia poiché la prima causa un senso di partecipazione dolorosa (patire insieme) che non permetterebbe al medico un’efficace valutazione clinica del paziente, mentre l’empatia pur trasmettendo le emozioni da un corpo ad un altro, non ammette nessuna partecipazione al dolore altrui. È, infine, fondamentale sottolineare come la scienza sia riuscita a trovare la causa, presente nel nostro DNA, dell’empatia; i neuroni specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti.

Conclusioni

In definitiva, l’enorme e multidisciplinare interesse nei confronti dell’empatia non può che essere dovuto alla consapevolezza che nell’uomo, tale aspetto, sia fondamentale. Nei più diversi modi, l’empatia è co-responsabile della crescita e formazione di una persona, del suo ruolo nel mondo, della comprensione delle dinamiche sociali, dello sviluppo sano di un individuo. Come scrisse l’economista Jeremy Rifkin, l’uomo moderno è naturalmente portato a provare empatia verso qualcuno:

sono circa 20.000 anni che non siamo più homo sapiens sapiens, ma homo empathicus. Leghiamo tra di noi, socializziamo, ci occupiamo l’uno dell’altro, siamo cooperativi […] Ci basiamo su tre colonne portanti per il nostro benessere: la socializzazione, la salute (igiene e sanità, nutrizione), e la creatività. Quando una di queste tre colonne o l’empatia viene a mancare o repressa, vengono fuori i nostri alter-ego, da cui la violenza, l’egoismo, il narcisismo ecc. […] Poi però, ci pentiamo di aver fatto del male, perché non è proprio nella nostra natura.[4]

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Note:

[1] Carl Gustav Jung, Tipi psicologici, Newton Compton, Roma, 1973
[2] Rollo May, L’ arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, Astrolabio-Ubaldini editore, Roma 1991 
[3] Grazia Mannozzi, Giovanni Angelo Lodigiani, La Giustizia riparativa: Formanti, parole e metodi
[4] Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., 2010

Davide Accardi

Classe '92, ha conseguito la laurea specialistica in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università di Palermo discutendo una tesi dal titolo L’identità nazionale nei territori di confine. I suoi campi di ricerca comprendono, inoltre, temi di biopolitica come lo Stato d'eccezione. Scrive e si interessa di cinema, in particolare sulla relazione tra spazi e vuoti in Antonioni e sull’influenza della psicanalisi in Kaufman.

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