Tutte le grandi opere letterarie lasciano una traccia nella storia. Ma in che misura la storia lascia una traccia nelle opere letterarie? Spesso ci soffermiamo sui capolavori della letteratura solo per i loro aspetti formali, per decidere in che corrente inserirli, e nulla più; c’è dell’altro, perché in quanto prodotto di una società sono anche preziose e inimitabili fonti storiche.
Per definizione sono fonti storiche tutti i materiali di cui si serve uno storico per strutturare la sua ricerca (Treccani), che è un altro modo per dire che ogni cosa è una potenziale fonte se si è in grado di analizzarla nel modo corretto. I bravi studiosi si spingono a dire che non c’è differenza tra i veterani e i novizi della ricerca, ma solo tra chi sa leggere bene le fonti e chi invece sa solo piegarle al suo volere. Il Decameron è un caso interessante da questo punto di vista, perché tutti ne ricordano vagamente qualcosa, anche se a scuola viene spesso affrontato in modo inadeguato e superficiale. I programmi non permettono troppe sovrapposizioni tra lo studio della storia del Trecento e quello del capolavoro in letteratura; pratica che invece gioverebbe allo studio di entrambe le discipline.
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Giovanni Boccaccio nacque a Certaldo o a Firenze nel 1313, dalla relazione di una donna sconosciuta con un mercante sposato, Boccaccino di Chelino, che lo legittimò come proprio e lo introdusse alla sua stessa pratica, oltre ad avviarlo agli studi di grammatica e letteratura. I primi decenni del XIV secolo furono un periodo di straordinario successo economico per i fiorentini, che in particolare grazie alle gigantesche compagnie commerciali delle famiglie Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli gestivano il flusso di denaro nelle casse dei principali regni, prestando fiorini a credito al regno d’Inghilterra, di Francia e di Napoli e arrivando a gestire anche le finanze del pontefice.
Proprio con i Bardi collaborava il padre di Giovanni Boccaccio, che si trasferì a Napoli nel 1327. Qui l’adolescente Giovanni Boccaccio amava passare le ore nei fondaci, i magazzini delle compagnie commerciali, ad ascoltare i racconti dei viaggiatori che gli avrebbero fornito tanti spunti per le sue novelle. Grazie alla posizione del padre inoltre frequentò gli ambienti altoborghesi e nobiliari, costruendo amicizie ed entrando in contatto con i principali circoli culturali.
A Napoli, uno degli snodi nevralgici del commercio “internazionale”, Boccaccio trovò in prima persona stimoli e ispirazione grazie al suo spirito di osservazione. Ma come funzionava il commercio al suo tempo?
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Le gigantesche aziende fiorentine (che oggi gli storici chiamano super-companies) potevano contare su disponibilità di capitale immense, originate di solito dalla compravendita di grandi quantità di merce e successivamente con prestiti a credito. Si trattava di compagnie di mercanti-banchieri, che praticavano entrambe le attività. Grazie alla loro affidabilità, nota a tutti, e a una rete di collaboratori fittissima, potevano aprire filiali in tutti i centri strategici, per essere vicini ai mercati attraverso cui passavano le merci più richieste (i Bardi, ad esempio, arrivarono ad averne più di venti sparse per l’Europa continentale e il Mediterraneo).
Appena una località raggiungeva un livello di interesse tale da rendere fruttuosa l’apertura di una filiale, allora dalla sede centrale si inviavano dei collaboratori e se ne cercavano altri in loco. Per mantenere una filiale operativa bastavano un paio di agenti e un gruppo di garzoni. Quello della sede centrale non era però un controllo stretto, l’organizzazione era più simile a quella degli odierni franchising. Il sistema interno premiava con un sistema di bonus gli amministratori più abili e fedeli in termini di anzianità, e faceva molti sforzi per punire quelli sleali.
Le filiali operavano con grandi autonomie, limitandosi a garantire un flusso costante di merci alla sede centrale, rispondendo a variazioni nella domanda o richieste precise. Quando poi una di queste filiali entrava in crisi, per investimenti sbagliati o per cattiva gestione, le altre avevano il dovere di intervenire colmando gli ammanchi.
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Ma anche le cose belle finiscono. All’inizio degli anni Quaranta Edoardo III, re d’Inghilterra, coinvolto nella Guerra dei cent’anni, si accorse di non avere la possibilità di ripagare i giganteschi debiti che aveva con le super-companies fiorentine (tra loro strettamente legate), scatenando il caos. Per certi versi fu lo scoppio di una bolla su cui si erano basati quasi tutti i princìpi economici degli ultimi decenni. Le filiali iniziarono a fallire a catena – nessuno vuole commerciare né investire né avere denaro in una banca ormai insolvente – senza che nessuno potesse fare nulla, e ben presto si sfilarono anche gli altri sovrani europei: era una totale emorragia di capitali. Bardi e Peruzzi dichiararono bancarotta nel 1345.
Possiamo solo immaginare quanto devastante sia stato l’impatto di tutto questo, non tanto nelle vite dei membri delle principali famiglie (che tendenzialmente si ripresero entro qualche anno, data la differenziazione dei loro investimenti), quanto in quelle dei collaboratori e degli investitori più piccoli, che si ritrovarono a doversi ritagliare di nuovo uno spazio in un panorama complesso.
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Il padre di Giovanni Boccaccio fu travolto dalla crisi, nonostante avesse smesso di lavorare per i Bardi nel 1338. Negli anni Quaranta lo scrittore si dedicò alla letteratura e viaggiò soprattutto tra la Toscana e la Romagna. Ma nel 1348 era a Firenze quando arrivò la peste, seconda catastrofe del decennio, di cui la narrazione boccacciana è tra le più celebri, nonché realistica, raccontando la fuga di dieci giovani che si spostano nel contado per non rischiare la vita.
Dopo la pestilenza il mondo dei commerci dovette prendere atto di una situazione che era totalmente cambiata rispetto al decennio precedente. Ovviamente il crollo demografico aveva determinato un calo della domanda in tutta Europa, ma i fallimenti delle super-companies avevano insegnato qualcosa ai mercanti: le aziende colossali non erano più adatte ai capricci della clientela. Era necessario ridimensionarsi.
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Le compagnie commerciali della seconda metà del Trecento avevano dimensioni notevolmente minori. C’era ancora una sede centrale naturalmente, ma meno filiali e meno dipendenti; al posto di aprire decine di filiali e gestire reti colossali di agenti, si preferiva stringere legami con altri mercanti, scambiandosi favori e condividendo la piazza di scambio. I rapporti erano stretti, spesso di sincero affetto, come testimoniano gli appellativi presenti nelle lettere che attraversavano il continente: lo sappiamo anche grazie allo straordinario carteggio del mercante Francesco di Marco Datini, attivo a Prato nella seconda metà del Trecento.
Solo in questo modo, adattandosi all’elasticità del mercato e guardando al futuro con realismo, fu possibile rimettere in circolo l’economia. I mercanti-banchieri divennero definitivamente i protagonisti del Tardo Medioevo, capaci di mettere in contatto realtà diversissime tra loro e garantendo uno scambio costante di merci e cultura. Il mondo che ci presenta Giovanni Boccaccio nelle sue novelle è a cavallo tra le due fasi del commercio bassomedievale – la stesura dovette collocarsi tra il 1349 e il 1353 circa. Sfogliando il suo capolavoro ci imbattiamo in mercanti che basano tutto sulla loro reputazione, sfruttandola a proprio vantaggio. È il prototipo di un nuovo mercante e di un nuovo uomo, deciso a lasciarsi alle spalle un mondo per inaugurarne uno nuovo, non necessariamente migliore ma certamente diverso.
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