Una formazione di nembi bassi si muove, sinuosamente, per arrivare a St. Moritz. Percorre la valle sopra Sils Maria, in Svizzera, e fluttuando separa il bacino del Po da quello dell’Inn. Eccolo il serpente di Maloja, eccole le nuvole di Sils Maria.
È da qui che parte Oliver Assayas per realizzare la sua poderosa riflessione sul tempo, dagli stessi luoghi che ispirarono a Friederich Nietzsche la teoria dell’eterno ritorno. Arnold Fanck l’aveva ripreso, nel 1924, il Wolkenphänomen von Maloja, svelando al mondo la suggestività di ciò che accade, in autunno, nella valle dell’Engandina.
Se il cinema di Assayas è fatto di immagini, le nuvole di Sils Maria rappresentano la metafora perfetta di qualcosa che c’è ma è oltre la superficie, supera l’organicità del compatto e si dipana in brandelli, polvere di tempo. Basta un piccolo movimento per cambiare occhio, prospettiva ed emozione in momento indefinito che sembra tornare però ciclicamente uguale a se stesso. «L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!» [1] ed ecco allora riaffiorare rancori, rivalità e ossessioni come un serpente attorcigliato al collo dell’aquila.
Maloja snake, del resto, è il titolo della piéce teatrale che Maria Enders (Juliette Binoche) si trova a portare di nuovo in scena. A diciotto anni il debutto con Wilhelm Melchior, alla soglia dei quaranta la morte del mentore e il ritorno sul palco. Dall’altra parte della barricata, però. Ora Maria interpreta Helena, femme non fatale sedotta e abbandonata da Sigrid, la spietata protagonista che l’aveva consacrata stella del cinema appena varcata la soglia della maggiore età. Il tempo si ripete, ma mischia beffardamente le carte.
A vestire i panni della giovane c’è ora un’enfant prodige del cinema commerciale (Chloë Grace Moretz), una starlette innalzata a star grazie alle relazioni tormentate e ai video in cui si mostra ubriaca. Tutto torna, ciclicamente, ma gode a invertire i ruoli.
Perché la giovinezza, quella no, non è imprigionata nella clessidra del tempo. Sembra più un fiume eracliteo, con l’idea del “tutto scorre” che è minacciosa come le montagne dell’Engandina, come il serpente di nembi che sinuoso si muove nella valle in cui Maria e l’assistente Val (Kristen Stewart) si rifugiano per provare. La giovinezza passa, e assume fattezze di donna di cui non riusciamo a capire il successo, che cerchiamo vouyeristicamente su Google per capire cosa possa saperne di ciò che ieri era stato nostro. Un donna da E! Entertainment pronta a divorare ciò che resta della nostra gioventù.
Il tempo è eterno ritorno che si accompagna a un raffinato gioco di specchi, con la vita e il teatro che si mischiano e sovrappongono oltrepassando la linea sottile tra realtà e finzione. A tornare è lo spettacolo, ma è la storia di Helena e Sigrid a non essersene mai andata dal cuore di Maria, costantemente impegnata a recitare con Val la parte della donna di successo irretita dalla giovane assistente. Non si capisce dove finisce Helena e inizia Maria. Se gli apprezzamenti di Val per la nuova Sigrid siano per l’attrice sintomo di invidia professionale o più intima gelosia. È come camminare sul filo di un equilibrista.
Tra le due s’instaura un confronto scontro proprio della dialettica servo-padrone, con il germe dell’attrazione che cova silenzioso sotto la messa in scena di un amore morboso, con continui riverberi tra realtà e spettacolo che sfumano e irrompono nelle scene di dialogo serrato e a passeggio tra i monti. Non c’è soluzione di continuità, l’anima di Maria è quella di Helena destinata a restare soggiogata da un’eterna Sigrid.
La mise en abyme ha forse però una sua funzione essenziale, tesa alla presa di coscienza dell’inevitabile verdetto degli anni; la simbiosi tra attrice e assistente si spezza di colpo, mentre le nuvole di Sils Maria attraversano il cielo. Val scompare, spianando a Maria la strada dell’accettazione. Ecco allora che lo scambio di battute finale tra essa e la nuova Sigrid Jo-Ann segna, ancor prima dell’inizio della piéce, il senso di questa; Helena è sconfitta, ma Maria può maturare. L’addio al passato si risolve fuori scena, con una scenografia costruita, non a caso, con un elegante gioco di riflessi in ambiente minimal.
Maria si siede al suo posto, mentre le note del canone di Pachelbel accompagnano i suoi respiri profondi. Il serpente non si morde più la coda, ma è proiettato sulle pieghe del sipario chiuso. Wilhelm Melchior diceva che solo grazie al Maloja snake il paesaggio riesce ad acquisire fisionomia; è così anche per Maria, perfetta Helena libera dall’ossessione dell’eterno ritorno.
[1] Nietzsche F., La gaia scienza e Idilli di Messina, Milano, Adelphi, 1977
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