Città sommersa di Marta Barone (Bompiani 2020, acquista) è candidato tra i dodici semifinalisti al Premio Strega 2020. Attraverso un’intensa autobiografia, Marta ripercorre, mediante carteggi e testimonianze, la vita del padre, personaggio confusionario, eclettico, intellettuale, con una doppia laurea (Medicina e Giurisprudenza), un anno di carcere e l’obbligo di firma in questura per tutti gli anni della sua vita. E quell’inquietante accusa di banda armata che aleggia sopra alle sue spoglie.
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«Una volta qualcuno, qualcuno che pure gli aveva voluto bene, mi ha detto, con sincera compassione: «Non dev’essere stato facile averlo come padre». No, non lo era stato. Non lo è stato fino all’ultimo istante. Non è stato facile, dopo, sentirmi ripetere da un ventaglio di sconosciuti che padre meraviglioso dovesse essere. Mi limitavo a una smorfia di cortesia. Mi sembrava di conoscerlo. Lo conoscevo fin nei suoi anfratti più foschi, brutali, dozzinali. Lo conoscevo anche nei suoi attimi di limpidezza. Pensavo di averlo capito tutt’intero. Ma adesso dovevo prendere atto che non lo conoscevo bene come credevo – che forse non lo conoscevo affatto».
Prima Linea
Nel 1984, il 22 giugno esce un articolo di giornale su La Stampa, titola: «Arrestato per banda armata: operaio Fiat in cassa integrazione – è di Prima Linea?». Scrivono:
«Barone è un personaggio estremamente conosciuto negli ambienti operai: negli ultimi anni infatti è stato sempre presente nelle lotte contro la cassa integrazione e i licenziamenti. […] Nel testo del mandato di cattura si fa riferimento a tutta una serie di reati che presumibilmente l’operaio avrebbe compiuto al fine «di sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali dello Stato» e quindi la distribuzione dei documenti inneggianti alla lotta armata, detenzione di armi ed esplosivi, persino una rapina».
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Veniva quindi emesso, in quel giugno 1984, un comunicato in cui Leonardo Barone veniva rivendicato come avanguardia riconosciuta di movimento.
Prima Linea è stata un’organizzazione armata di estrema Sinistra, di stampo comunista che, fuoriuscita da Lotta Continua, aveva scelto sin dall’inizio la strada della lotta armata. Sarà seconda, in Italia, solo alle Brigate Rosse, per numero di persone colpite, azioni armate e numero di aderenti. Nel 1984, anno in cui Leonardo Barone fu messo in stato di arresto, Prima Linea era ormai arrivata alla sua conclusione. Nello stesso anno, infatti, venne ratificato lo scioglimento.
Tutto quello che sapeva Marta Barone sul padre, prima di allora, era che aveva fatto il medico; e che era stato arrestato con l’accusa di essere un terrorista. Usava dire:
«Avevo curato uno di Prima Linea ferito, e quindi» calcando con sarcasmo sul nesso logico, «mi hanno accusato di essere di Prima Linea».
Torino
Nel racconto di Marta Barone ci sono due città sommerse: la Torino vissuta da lei in prima persona, adulta, contemporanea, reale; e la Torino di suo padre, operaio Fiat, che aveva lasciato la facoltà di Medicina ad un passo della Laurea per seguire il Partito: Unione dei Comunisti Italiani (Marxisti-Leninisti); lo stesso partito che lo aveva spedito a Torino, territorio operaio che necessitava di una militanza.
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Avvicinandosi al Partito, L.B. (come scrive Marta) aveva abbracciato l’ideologia che attraversava alcuni gruppi extraparlamentari di Sinistra tra gli anni Sessanta e Ottanta: cioè abbandonare le abitudini borghesi, occuparsi attivamente del Partito, cedere i propri beni per vivere una vita umile, proletaria. Aldo Brandirali, capo e fondatore, imponeva le direttive su qualsiasi aspetto della vita privata dei militanti. Negli anni ’80 si convertirà poi alla fede cattolica, cominciando ad interessarsi a Comunione e Liberazione. Nel 1992, quando ritornerà in politica, farà parte della Democrazia Cristiana.
«Lo so che tutto questo ti sembra ridicolo, e lo era, lo era così tanto che mi fa ancora stare male. Ma noi pensavamo fosse un modo come un altro… non lo so. Il partito sembrava… pratico. Si partecipava alle lotte per la casa, alle lotte di fabbrica. Si distribuiva continuamente materiale che facesse capire al popolo, qualunque cosa fosse, che la sua situazione poteva cambiare. E in fondo solo questo volevamo: che tutti avessero una casa e le stesse possibilità, che i ricchi non fossero più così oscenamente ricchi, che i poveri potessero avere una vita dignitosa, elevarsi a ciò che desideravano. Ci dicevano che la rivoluzione sarebbe arrivata in sette anni. Sette anni, un numero magico, […]. Pensavamo che il partito fosse un mezzo, e invece era solo una macchina ottusa che ci stritolava senza che ce ne accorgessimo».
«Città sommersa»
L’intenzione di Marta con il suo scritto Città sommersa è dare un pensiero e un volto a un uomo sommerso dalla sua stessa storia. Un’ombra di un individuo che la figlia credeva aver conosciuto a fondo, ma che risultava essere estremamente lontano dall’immagine che gli amici, l’ex moglie, gli ex compagni ora davano di lui. Un uomo pregiudicato a causa di un errore, legato a una lotta che gli apparteneva, ma che allo stesso tempo gli era costato quell’anno di prigionia. E quella macchia che, se da una parte si avvicinava a chiarire quell’immagine eterea di lui, dall’altra la complicava passo dopo passo.
Città sommersa è quindi un racconto storico, ma è anche una storia profondamente personale posta sotto la luce del sole. La verità che l’autrice indaga non è solo una verità pubblica; è anche, e soprattutto, una verità privata: quella cioè di comprendere chi realmente fosse Leonardo Barone.
La sua scrittura, il suo memorandum, è un modo di ricordare l’uomo, ma prima ancora la memoria storica. Attraverso la carta, gli dedica un lungo, estenuante, addio.
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