Così attaccati ai sensi come siamo, difficilmente riusciremmo a immaginare che i nostri occhi rimangano, anche solo per un attimo, completamente privi di vista. L’esperimento mentale meglio riuscito non potrebbe comunicare una simile sensazione, e nemmeno lo sforzo, frustrante, di chi di cecità soffre, nel tentare di rendere dicibile il proprio male. «Non vedo». Sì, ma cosa vuol dire “non vedo” per chi a vederci è abituato? Non vuol dire nulla.
Diversamente andrebbero le cose se anche a chi ora vede fosse negato quel possesso sicuro. E allora, a volerlo narrare, ne uscirebbe una favola (o un’ipotesi?) tanto angosciante quanto poetica.
Cecità di Josè Saramago, romanzo pubblicato nel 1995 (titolo originale: Ensaio Sobre a Cegueira), ed edito in Italia per Feltrinelli, è la vivida prosecuzione di ciò che il senso comune ritiene troppo spaventoso anche solo per essere immaginato: tutti gli abitanti di un luogo imprecisato si ritrovano improvvisamente ciechi.
Trama
Si immagini il panico. Saramago, che non si risparmia di ironizzare qua e là, nella bravura del suo scrivere rende con grande efficacia il terrore vissuto dalle anonime comparse che compongono la storia. Anonime perché la dialettica cecitàvista s’insinua anche nell’intreccio narrativo: i personaggi non hanno nome, sono identificati con la propria professione, il ruolo sociale. Il nome, attributo personale, perde di senso quando il collegamento con il possessore rimane troncato.
Le pagine che aprono il romanzo sono un vortice che trascina con sé il lettore: la prima vittima dell’inspiegabile epidemia è un vecchio, al volante, mentre aspetta che il semaforo cambi colore per proseguire lungo la strada, e: «finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. […] alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l’automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l’uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall’altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello. Sono cieco».
Uno ad uno, spietatamente, gli abitanti della città, che Saramago lascia indefinita in quanto a coordinate, sono trascinati dalla cecità improvvisa, e si ritrovano con un mare di latte a bloccargli la vista. Sì, perché non un nero buio cala sugli occhi delle vittime, ma un’abbacinante chiarore «talmente luminoso, talmente totale da divorare più che assorbire, non solo i colori, ma le stesse cose e gli stessi esseri, rendendoli in questo modo doppiamente invisibili».
Il Governo improvvisa drastiche soluzioni per tentare di arginare la presunta epidemia di cecità che lentamente si espande: l’unica via di scampo è quella di internare in un manicomio abbandonato i poveri ciechi, sorvegliandoli come carcerati, come bestie nel recinto, e aspettare che miracolosamente si trovi un rimedio al “mal bianco” oppure, che i reclusi si scannino l’un l’altro, risolvendo da sé il dramma.
Homo homini lupus
Ma forse, prima di essere un romanzo, Cecità è una riflessione di grande livello sui problemi che l’uomo da sempre si pone, primo tra tutti il problema del male. L’indifferenza, l’egoismo, la malvagità che Saramago ritrae si palesano nella loro forza proprio quando la vista non può scovarle, e ruggiscono, come un leone tenuto addormentato nel fondo degli uomini.
Homo homini lupus diceva il filosofo. A conferma di ciò sono le primissime pagine del romanzo: lo sventurato rimasto cieco aspettando il semaforo, viene riaccompagnato a casa da un soccorritore che si mostra benintenzionato, ma che poi gli ruba la macchina. Tuttavia la vera cattiveria, la vera malvagità, si mostrerà solamente fra le mura del manicomio, quando nei ciechi, annebbiati nella vista, saranno gli istinti a prevalere.
Saramago, «romanziere come metafisico» (per usare un’espressione di Iris Murdoch), lascia nelle pagine di Cecità la risposta alla domanda sulla natura del male, giacché laddove l’uomo è in grado di approfittare a danno dell’altro, ecco che approfitta. Il romanzo, è innegabile, trabocca di pessimismo nonostante i baluginanti momenti di luminosità che si rivelano nelle rare situazioni di solidarietà reciproca.
Platone scriveva che la vista della mente si fa più acuta quando quella degli occhi comincia a declinare. Ma ciò che la mente vede, ci suggerisce Saramago, è la via più breve per sottomettere il prossimo, lasciando all’indifferenza Bene e Male.