Adattamento teatrale dell’omonima “favola erotica” della Cosa (1983), La cintura sviluppa l’ossessione di Alberto Moravia della bomba atomica – la pulsione di morte come tematica dominante. Allegoricamente prossimo all’auto-distruzione occidentale, il tema del disastro si articola in un plot di tre scene per due atti, costruiti attorno al nucleo della storia di Vittoria, invischiata nei gangli di una paralisi esistenziale. Stretta fra il terrore dell’inverno atomico e un intenso, insopprimibile, dinamismo pulsionale, la donna vive col consorte un mènage dal doppio volto, segnato dalla violenza e dal controllo, da rapporti sessuali al limite dello stupro e apatiche – invivibili – “sessioni” di impotenza.
Il dominio del maschio-belva (una bestia, lo chiama lei, si veda questo prelievo: «ad un tratto tu, un uomo di solito così calmo, così ragionevole, diventi una bestia. Mi strappi il guinzaglio, mi sbatti sulla sabbia […]. Poi, quando non ne puoi più, getti il guinzaglio e fai l’amore con violenza, con crudeltà») è accolto da Vittoria con un senso di attrazione, un’incomprensibile equilibrio dello stare al mondo, che crolla nel momento della “resa” del marito. Quando Vittorio – aduso all’utilizzo della cinghia – lascia il tetto coniugale, la donna si getta in una ridda di incontri, dalla madre-boia e amante del marito all’amatissimo padre, dal meccanico sgraziato alla frivola cameriera, emblemi – quest’ultimi – di «un’odio di classe [che] può diventare amore».
C’è, ne La cintura di Moravia, un horror vacui che permea la scena, il passaggio dall’atto “finzionale” all’atto “recitato” (Vittoria, lo ricordiamo, è essa stessa un’attrice) comporta uno sdoppiamento intrinseco, un bisogno di evasione che diviene – in realtà – senso di eterna finzione. Così il sesso, che da atto sovversivo si fa pratica di servaggio: un disastro annunciato, la distruzione “atomica” della borghesia italiana. Gli incontri della protagonista, rendez-vouz perversi e programmati, si configurano dunque come frammenti di analisi, spiragli atti a indagare i chiaroscuri della sua anima. Vito Santoro, in un’analisi lucida e puntuale, nota lo scarto tra la Vittoria teatrale e quella che abita il racconto:
«Entrambe di estrazione sociale borghese e piuttosto colte, si presentano nell’aspetto, la prima “bionda, magra e spirituale”, la seconda “bruna, magrissima, tutta piatta salvo il sedere”, con la “faccia smunta, divorata, si direbbe, da un ardore febbrile, con gli occhi verdi, il naso adunco, la bocca grossa e tumida”, sempre pesantemente truccata, quasi come una prostituta»[1].
La professione della donna è tuttavia il nodo centrale, l’idea che nel mestiere d’attrice risieda la chiave di decodificazione, come rivela Moravia nella sua indagine sul teatro checoviano.
La “chiacchiera”, il racconto simbolico, è per l’autore romano una porta d’accesso al declino tardo-borghese, lo slittamento da una condizione recitata all’angoscia del proprio tempo. Scrive ancora Santoro:
«Una chiacchiera, solo in apparenza leggera e ottimista, ma carica di “un significato di cui coloro che la facevano erano in un certo modo consapevoli, anche se poi non erano capaci di definirlo”, in quanto pronunciata dalla borghesia russa primo novecentesca, presaga della catastrofe imminente della Rivoluzione d’Ottobre che stava per abbattersi su di lei»[2].
Interpretando l’Irina delle Tre sorelle, Vittoria fugge la situazione di stallo (già preambolo della fine) camminando in bilico su un “nuovo” vuoto, anteriore al suo tempo – per questo altamente simbolico. Tutta l’opera La cintura di Moravia è, del resto, un ballo dei “sospetti”, in cui ogni incontro, ogni cambio di abito è indizio dell’apocalisse intima e culturale, come un vuoto esso stesso vacuo, tramato di desolazione, indolenza, crudezza realistica. Sull’orlo del precipizio, e in una società ridotta a brandelli, il sesso è pulsione vitale ma – e qui Moravia è quasi pasoliniano – da «piacere contro gli obblighi sociali» [3] si afferma (anche) come dovere, condizione necessaria per l’accettazione, strumento di controllo e omologazione.
Leggi anche:
«La noia» di Alberto Moravia: un invito alla lettura
Vittoria cerca, nella sua lotta contro il buio, di trarre dall’eros un conforto intimo, il motore dell’esistere al di là degli steccati, fuori dall’aria di morte. La violenza anelata – le cinghiate del marito, il pugno del padre rievocato in flashback, quando bambina, tra le onde del Tirreno, rischiava di annegare – è un grido di r-esistenza, un bisogno di afferrare il rantolo vitale che precede la morte. Nello sforzo, tuttavia, è in agguato la capitolazione. Il sesso diviene rito, un gioco al massacro sull’orlo della quotidianità. In attesa dell’apocalisse atomica.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!
Note
[1] V. Santoro, Sadomasochismo e “impotenza atomica”: l’ultimo teatro di Alberto Moravia, in “Critica Letteraria”, 143, II, XXXVII, Napoli, Loffredo, 2009, p. 298.
[2] Ibidem.
[3] P. P. Pasolini, Il sesso come metafora del potere, in “Corriere della Sera”, 25 marzo 1975
Immagine di copertina: Horst P. Horst, Corset by Detolle for Mainbocher, 1939