Il 28 dicembre 1895 è una data scolpita nella storia della cultura e dell’arte: a Parigi, al Salon Indien du Grand Café sul Boulevard des Capucines avviene la prima proiezione cinematografica organizzata dai fratelli e imprenditori Auguste e Louis Lumière. Si tratta di semplici riprese frontali, eseguite con macchine rudimentali che ritraggono il momento de L’uscita dalle Officine Lumière. Nonostante la portata rivoluzionaria di tale scoperta, il cinema non nasce come arte, ma è piuttosto un’illusione ottica che traduce una rapida successione di fotogrammi in immagini in movimento.
Gli stessi Lumière la definiranno «un’invenzione senza futuro» mostrando una scarsa fiducia nelle sue potenzialità. Negli anni a venire, saranno numerosi gli intellettuali, soprattutto scrittori e giornalisti, che costruiranno un loro personalissimo (e spesso critico) rapporto con il cinema, un fenomeno destinato a scardinare il panorama artistico del tempo e a dare un significativo apporto alla nostra tradizione culturale.
Nonostante il primo cinema muto inseguisse di fatto l’approvazione dei letterati del tempo, questi espressero in più occasioni un totale rifiuto della commistione tra le due discipline. Se la parola scritta nasce, infatti, da un complesso travaglio a cui partecipano intelletto, volontà, fantasia e sentimento, l’occhio distaccato e asettico della macchina da presa esegue, invece, un atto puramente meccanico che si riduce a semplice mummificazione e documentazione di un reale che ci sfugge.
Facile intuire che dalla parte dei grandi sostenitori della nascita del cinema altri non ci potevano essere che i Futuristi, cultori della modernità, di tutto ciò che è movimento, velocità e rivoluzione. Da questa nuova esperienza derivò un vero e proprio movimento d’avanguardia, con la pubblicazione nel 1916 da parte di Filippo Tommaso Marinetti del manifesto La cinematografia futurista o con la realizzazione di Vita Futurista (1916) di Arnaldo Ginna, primissimo e dirompente esempio del cinema futurista, oggi andato perduto.
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Dall’altra parte, tra i più illustri sguardi critici verso questa novità artistica Guido Gozzano coltivò con il cinema un rapporto ambiguo e contrastante, tra curiosità e scetticismo, mentre Giovanni Verga gli era apertamente ostile in quanto profanazione, tanto da definirlo «castigo di Dio» e «forma di romanzo d’appendice per analfabeti», rivendicando il primato della parola scritta sull’immagine, la propria sensibilità e coscienza artistica contro ciò che lui considerava una vera e propria contraffazione.
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Fra i tanti che parteciparono al dibattito, anche Italo Calvino sosteneva la distanza tra cinema e narrativa, per lui nemmeno la stessa sceneggiatura poteva essere considerata accostabile in alcun modo a un genere letterario. Chiare le sue parole in merito alle diverse capacità evocative delle due forme artistiche: «La letteratura usa parole generiche per evocare immagini precise. Il cinema usa immagini diremmo precise per evocare sentimenti generici».
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D’altra parte, a sottolineare l’apparente inconciliabilità tra cinema e letteratura non furono solo gli scrittori, ma anche affermati cineasti. Ne sono emblematico esempio proprio le parole del monumentale regista e sceneggiatore svedese Ingmar Bergman, che affermava:
Il cinema non ha nulla a che vedere con la letteratura. I caratteri e l’essenza di queste due forme d’arte sono solitamente in conflitto. (…) e soprattutto a causa di tali differenze evitare di fare film tratti dai libri. (…) Non desidero scrivere romanzi, racconti, saggi e nemmeno lavori teatrali. Io sono un cineasta, non uno scrittore.
Anche lo scrittore e giornalista Luigi Pirandello, nonostante fosse un assiduo frequentatore di sale cinematografiche, condannò in ogni modo l’accostamento della letteratura al cinema, trattando l’argomento in numerosi suoi scritti. Secondo lui sarebbe, infatti, impossibile conciliare la natura vitale e artistica della letteratura (intesa come immaginazione ed evasione dalla realtà) con un fenomeno arido e disumano come il cinema. La componente tecnica è morte della creatività e ostacolo all’anima dell’arte, distrugge ogni tentativo di illusione. Nel suo romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Pirandello riconosce la natura rivoluzionaria del cinema, mettendo però in evidenza il suo carattere alienante e mercificante.
Nel saggio Se il film parlante abolirà il teatro Pirandello riflette sull’avvento del sonoro nella cinematografia, negando che il cinema possa in qualche modo accostarsi alla narratività dello spettacolo teatrale di cui rischierebbe di «diventarne una copia fotografica e meccanica, più o meno cattiva, la quale naturalmente, come ogni copia, farà sempre nascere il desiderio dell’originale». Particolarmente disturbante per lo scrittore siciliano è l’introduzione della voce parlata – «la voce suona sempre dentro la sala presente, con un effetto, anche per questo, sgradevolissimo d’irrealtà» -, non riuscendo a cogliere l’unitarietà audiovisiva dell’immagine con le parole che escono dagli altoparlanti.
Ma nello stesso saggio Pirandello indica al cinema la giusta via da seguire:
Bisogna che la cinematografia si liberi dalla letteratura per trovare la sua vera espressione e allora compirà la sua vera rivoluzione. Lasci la narrazione al romanzo, e lasci il dramma al teatro. La letteratura non è il suo proprio elemento; il suo proprio elemento è la musica.
A differenza del cinema degli anni ’10, più letterario e impuro (ricordiamo film come Nascita di una nazione, 1915, di David Wark Griffith) sarà proprio il cinema degli anni ’20 a seguire questa nuova strada alla ricerca di una propria identità artistica, come nel film Napoleone (1927) di Abel Gance, capolavoro spartiacque nella storia del cinema europeo.
Annullata qualsiasi forma di racconto e riferimento letterario, il film sfrutta appieno tutte le innovazioni tecniche nel campo del montaggio, cimentandosi in sperimentazioni filmiche arricchite da rallentamenti, dalla tecnica della Polyvision (in uno stesso schermo vengono mostrate tre diverse inquadrature), da sovraimpressioni, accelerazioni, fino ad arrivare alla pura astrazione.
Per le sue caratteristiche il cinema fu sicuramente più vicino alla pittura del tempo, ovvero all’Impressionismo. La prerogativa del cinema di «catturare» tutto ciò che accade si riflette proprio nell’occhio del pittore, costantemente impressionato da immagini e colori che la mano rappresenta e che l’occhio non modifica. E la macchina da presa, l’occhio più asettico e distaccato che ci sia, permette di dare, come gli Impressionisti volevano, un senso al movimento ribaltando la prospettiva, inventando uno spazio non più centripeto ma centrifugo, che mira alla separazione piuttosto che alla sovrapposizione. Non per nulla i Fratelli Lumière vengono definiti «gli ultimi pittori impressionisti».
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l’affermazione dei lumiere dove l’hai trovata? Il sito di “cinema ritrovato” dice che è falsa.