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Svetlana Aleksievic, chi è la vincitrice del Nobel per la Letteratura 2015

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4 minuti di lettura

Giovedì 8 ottobre 2015 è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura a Svetlana Aleksievic, giornalista d’inchiesta e cronista bielorussa che ha raccontato gli eventi dell’URSS nel secondo Dopoguerra: accusata dal regime di Aleksandr Lukašenko di collaborare con la CIA, è stata costretta a lasciare la Bielorussia fino al 2011, anno in cui ha potuto rientrare in patria dove, però, le è tutt’ora proibito pubblicare le sue opere. Svetlana Aleksievic ha sentito l’esigenza di scavare dentro i lati più oscuri della storia del suo paese, denunciando i danni che le guerre avevano lasciato nelle persone: ha dato voce ai sopravvissuti, agli spettatori e ai reduci degli orrori. Il governo svedese ha scelto di premiarla per «le sue opere polifoniche, un monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo».

Ho sempre cercato un genere che fosse il più adatto alla mia visione del mondo, che esprimesse come le mie orecchie sentono e come i miei occhi vedono. Ho cercato molto e finalmente ho scelto un genere in cui le voci umane parlassero per sé.
(Svetlana Aleksievic, sul suo sito ufficiale)

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Nata in Ucraina nella città di Ivano-Frankivs’k nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina, insieme alla famiglia si è poi trasferita in Bielorussia. Laureatasi nel 1972 in giornalismo presso l’Università di Minsk, ha prima lavorato come giornalista per alcuni giornali locali e poi è diventata corrispondente per la rivista Neman a Minsk, per la quale raccolse testimonianze della popolazione e raccontò gli eventi più drammatici avvenuti in Bielorussia alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la guerra sovietica in Afghanistan e la caduta dell’URSS.

Nel 1983 pubblicò The War’s Unwomanly Face (La guerra non ha volto di donna, in uscita per Bompiani) e venne accusata di «aver dipinto a tinte non sufficientemente eroiche la donna sovietica», così fino all’avvento della Perestrojka – il complesso di riforme introdotte nell’Unione Sovietica da Michail Gorbačëv nel 1987 per ristrutturare l’economia nazionale – è stata duramente perseguitata. Lo stile dell’autrice prende in prestito dal giornalismo la parola asciutta ed evocativa e dalla realtà storica degli intervistati emerge un racconto al tempo stesso intimo ed epico della disillusione di un popolo che si confronta con la propria ricostruzione.

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Con il reportage Ragazzi di zinco (1989) – che racconta dei giovani soldati bielorussi inviati in Afghanistan negli anni Ottanta – la scrittrice affrontò il periodo più cupo della sua vita professionale. Infatti, accusata di disfattismo, venne denunciata e portata in tribunale: fu miracolosamente salvata dalla mobilitazione di intellettuali democratici russi e bielorussi di varie organizzazioni internazionali per i diritti umani, che si schierarono al suo fianco e bloccarono l’azione legale intentata contro di lei. Nella sua opera, infatti, la guerra tra URSS e Afghanistan è raccontata dal punto di vista dei protagonisti, di cui Svetlana Aleksievic ha narrato il lungo corteo di un’umanità martoriata e piegata a simbolo della miseria degli errori di questa guerra e di tutte le guerre.

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Nel 1997 venne dato alla stampa Preghiere per Cernobyl, in cui ha cercato di definire una ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti. L’autrice infatti ha smesso di scrutare le sofferenze altrui per ritenersi testimone stessa del disastro nucleare. Riconosciuta l’impossibilità del margine di distanza tra voce narrante e cosa narrata, hanno origine una scrittura e un’invenzione narrativa che arrivano dritti al cuore e alla coscienza del lettore. Essendosi dichiarata parte del popolo di Cernobyl, le voci, le testimonianze da lei raccolte – pazientemente registrate in tre anni di ricerche – e le storie di sofferenza, malattia e morte sono diventate la sua storia. La presa d’atto, dunque, che quel giorno nella città ucraina era successo l’impensabile: oltre al quarto reattore della centrale si era infranta per sempre la possibilità di affidarsi alle percezioni corporee e di contare sui propri sensi.

La Aleksievic fu mossa dalla volontà di capire dall’interno e dal basso come si sia riorganizzata la vita di chi, in pochi secondi, è stato proiettato in un universo che neppure la letteratura fantascientifica più terminale aveva immaginato. I suoi strumenti d’indagine furono l’ascolto e la capacità di stare a lungo, indifesa e modesta, accanto a molte persone comuni fino a guadagnarsi la loro fiducia e a ricostruire ogni dettaglio delle loro storie. Un’insegnante di applicazioni tecniche, infatti, le disse: «Noi cernobyliani non gridiamo e non ci lamentiamo. Sopportiamo. Anche perché non ci sono ancora le parole. Il mondo si è diviso: ci siamo noi, quelli di Cernobyl, e ci siete voi, tutte le altre persone…».Questo “popolo a parte”, cui il male ha fornito una cittadinanza inedita, è ora alla ricerca di un senso, non per farsi una ragione di ciò che è accaduto, ma per non affondare nel baratro della paura. Sembra quasi un ossimoro definire questa corale preghiera per Cernobyl un testo sull’amore, ma è proprio di questo che si tratta; come sostiene l’autrice, infatti:

La mia scrittura è un atto di protesta interiore: voglio restare un essere umano e non arrendermi all’enormità del male. Il lavoro dell’intellettuale è avvicinarsi sempre di più alla realtà. Se però non si riesce a mettere a fuoco il senso di questa ricerca, ne viene fuori solo il magazzino degli orrori. Dobbiamo chiederci come liberare i nostri testi da ogni incrostazione emotiva, pure senza perdere la nostra individualità; come trasformare in arte, in parola, ciò che nella vita reale può farci svenire. Descrivere lentamente la morte di un uomo non è estetizzarla, è dire che non è giusto morire così.

La sua ultima opera Tempo di seconda mano, che le è valsa l’assegnazione del premio Nobel, è un’indagine sulle alterazioni prodotte dal crollo dell’impero sovietico nella vita dei suoi non più “asserviti” cittadini. Attraverso verità brucianti e dolorose e con la consueta capacità di guardare al reale senza mai distogliere lo sguardo, Aleksievic racconta la disfatta del modello comunista, restituendo con implacabile fedeltà le voci di donne e uomini di strada.

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Riguardo agli avvenimenti degli ultimi tempi, la giornalista dichiara l’intervento russo in Ucraina un’occupazione e un’invasione straniera, aggiungendo inoltre: «Non mi piace neanche l’84% dei russi che chiede che gli ucraini vengano uccisi». Alle sue affermazioni ha risposto Dmitri Peskov, il portavoce di Vladimir Putin: «Probabilmente non possiede tutte le informazioni necessarie per dare una valutazione positiva di ciò che sta accadendo». Ha anche annunciato che probabilmente non voterà alle presidenziali di domenica 11 ottobre, dove Aleksander Lukasenko si presenta per il quinto mandato, ma che se dovesse farlo voterà per la candidata dell’opposizione Titiana Karatkevich.

Alla domanda su come utilizzerà i soldi del premio, l’autrice ha risposto:  «Non ci ho ancora pensato. Comunque i soldi li uso in un solo modo: compro la libertà» Svetlana Aleksievic ha ringraziato inoltre la Svezia perché «Capisce il dolore russo» e ha dedicato il premio alla Bielorussia: «Non è un premio per me, ma per la nostra cultura, per il nostro piccolo paese, che è stato messo nel tritacarne della storia».

Nicole Erbetti

Immagine di copertina: Photo by Yves Alarie on Unsplash

 


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