Sul frontone all’entrata del tempio di Delfi, in Grecia, chi vi si recava per consultare l’oracolo, la Pizia, si ritrovava di fronte un’incisione diventata famosa: «conosci te stesso». Era il precetto dell’uomo temperato, retto e intelligente: il saggio. E chi fu più saggio di Socrate, che, difatti, proprio dall’oracolo delfico venne proclamato «il più sapiente degli uomini»? Ma sapiente in virtù di che cosa? Ci racconta Platone nell’Apologia di Socrate che Socrate stesso rimase sorpreso del responso delfico, e l’unica spiegazione che trovò per giustificare una così forte affermazione, fu addurla non tanto alla sua cultura enciclopedica, alle sue conoscenze scientifiche, alle sue competenze politiche, no, quanto piuttosto alla consapevolezza che lui, Socrate, aveva di se stesso. Diceva infatti Socrate di essere certo il più sapiente, ma in virtù del fatto di nulla sapere. A differenza di tutti gli altri, politici, militari, uomini di scienza, Socrate si proclamava ignorante – ed era questa la sua conoscenza più grande e, allo stesso tempo, la misura della sua conoscenza di se stesso.
Conoscere se stessi, oggi
Così, più o meno, comincia la storia della cultura Occidentale. Il resto, come disse qualcuno, sono commenti a queste cose accadute 500 anni prima di Cristo. Così, dunque, con l’Occidente, cominciamo noi, e comincia la costruzione del presente che, inevitabilmente, si porta dietro come una lunga coda il precetto delfico del «conosci te stesso».
Ma oggi, che vuol dire? Cosa si propone chi decide di «conoscere se stesso»? Cosa «fa», e come «lo fa»? Ecco, nonostante la questione sia, in apparenza, semplicissima, nasconde nel suo fondo una difficoltà strutturale: conoscere se stessi non è qualcosa che, di fatto, si possa fare. Basta pensarci: voi non potete mettervi lì, sedervi, incrociare le braccia, e conoscere voi stessi. Come si fa? Dovreste avere (alcuni ce l’hanno (pare)) il dono di sdoppiarvi davanti ai vostri stessi occhi. Ma è impossibile: è come pretendere che un coltello si tagli con la sua stessa lama, una bocca si mangi coi suoi stessi denti.
Bisogna pensare che il conoscere se stessi delfico e ciò che noi, guidati dal buon senso, intendiamo per tale espressione non significhino lo stesso o, quantomeno, non abbiano lo stesso valore. In 2500 anni di storia sarà pure successo qualcosa.
Renato Cartesio
È successo, difatti, che un signore molto intelligente, che amava dormire e che, anche lui, si fingeva ignorante, un signore che si chiamava René Descartes, italianizzato in Renato Cartesio, ha operato, attraverso la sua opera, la sua filosofia, le sue idee, una svolta così radicale per il pensiero occidentale che noi, oggi, pur essendo nipoti dei Greci, non possiamo che dirci figli di Cartesio. Certo, Cartesio è l’epifenomeno dello Zeitgeist, l’incarnazione di un mutamento già nell’aria da molto tempo. Cartesio, per così dire, e poi quelli dopo di lui, l’hanno partorito dandogli forma concreta.
Con Cartesio la conoscenza, e dunque anche quella particolare forma di conoscenza che è la conoscenza di sé, muta la propria forma. Ora, per il soggetto, non è più necessario, come volevano i Greci, conoscere sé per conoscere la verità. La conoscenza di sé, per così dire, non è più così essenziale come poteva e doveva esserlo nell’Ellade, tanto che, un ipotetico tempio di Delfi costruito da Cartesio, non avrebbe sicuramente riportato sul suo frontone la frase che incontrava il Greco. La conoscenza di sé non è più, da Cartesio in poi, una prerogativa per accedere alla verità.
Per spiegarci (la cosa è complessa, e noi stiamo seguendo alla lettera il discorso foucaultiano che trovate nel corso del Collège de France del 1980-81) basti dire che ciò che noi designiamo con la parola «conoscenza» è molto più vicino a quanto intendeva Cartesio che a quanto intendevano i Greci. E, difatti, siamo disorientati davanti ad un precetto come quello del «conosci te stesso».
Tecnica di vita
Sì, perché conoscere se stessi non è propriamente un «atto conoscitivo», non è propriamente un’appercezione, un avvicinarsi all’oggetto sconosciuto per farvi luce come può essere un’indagine scientifica o sociologica. Lì siamo già con Cartesio. Conoscere se stessi, per come lo intendevano i Greci, è qualcosa che si avvicina di più ad una «pratica», ad un modo di vivere, ad una forma d’esistenza, e rientra nella più ampia categoria designata da Foucault della «cura di sé» ovvero delle tecniche, dei modi, attraverso i quali ogni soggetto costruisce, edifica, se stesso «in quanto soggetto». È una tecnica di vita.
Il maestro
Ma c’è un ma. Questo, infatti, questo movimento di costruzione del sé, secondo i Greci, ha una condizione essenziale: la cura di sé può avvenire esclusivamente solo attraverso la mediazione di un altro soggetto. Ovvero, di un maestro. In poche parole per prendersi cura di sé è necessario qualcuno che ci indichi come farlo – questo perché, come dicevamo prima, di noi stessi noi non sappiamo nulla e, soprattutto, non «possiamo» sapere nulla. Se non a condizione di essere guidati da qualcun altro. Lo stesso Socrate, che in fondo rappresenta il caso limite di questo modello, ebbe bisogno della parola altrui, dei suoi interrogati, per sapere chi «lui» fosse davvero, ossia che «lui» fosse il più sapiente.
Nell’Alcibiade primo Platone sintetizza perfettamente questo movimento intellettuale, della cura di sé attraverso l’intervento di un maestro. Dice Platone che lo specchio più autentico, quello più terso, dove si riflette il nostro viso – metaforicamente, il nostro animo – e nel quale, una volta per tutte, ci si vede realmente – tale specchio, dicevamo, è l’occhio dell’altro, l’occhio di chi ci guarda. Le persone intime hanno questo di particolare: quando le si guarda, e quindi quando siamo guardati, riflettono la nostra immagine nel loro occhio.
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Un paradosso
C’è di più. Come possiamo noi decidere «chi vogliamo diventare», se non sappiamo prima «chi siamo»? E come possiamo noi affidarci a qualcuno che «ci faccia diventare ciò che siamo», se non «sappiamo chi vogliamo diventare»? Evidentemente, siamo di fronte ad un paradosso. Bisogna scegliere un maestro per vedere dentro di noi. Ma come sceglierlo se di noi in partenza non sappiamo nulla?
L’unica soluzione che eviti l’aporia è supporre che i Greci avessero voluto pensare, attraverso il modello della cura di sé, un sapere pre-razionale, un sapere pre-conoscitivo, un sapere cioè inoggettivabile che scansasse ogni messa in forma teoretica. Un sapere del corpo, forse? Può darsi. Certo è che questo passo iniziale non è, per nessuno, mai, teorizzabile o insegnabile perché di esso siamo noi, e solo noi, la fonte unica. Non si dà scienza del particolare, come diceva Aristotele.
Che cos’è conoscere se stessi?
Tiriamo le fila. Per conoscere se stessi, quindi, bisogna prima di tutto dimettere la pretesa di farlo, bisogna lasciarsi andare, in un’ottica di «abbandono» fisico e spirituale alla guida di qualcun altro. È come quando si prova, «forzatamente», ad addormentarsi: fallirete insistendo sull’azione; avrete successo lasciandovi prendere da essa. E allora, forse, i Greci non ci stanno dicendo che la «vera» scelta della nostra vita, in fondo l’unica scelta fondamentale per noi, è quella che non si può fare? Ma lo sappiamo bene: su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
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