Cecilia Re, nel mezzo della tempesta. Con i miti di «El Cuchu» Cambiasso e Andrea Pirlo, fin da piccola, dall’oratorio di Busnago, in provincia di Milano, dove è cresciuta, ha cercato di imitare e ripercorrere la strada di questi due giudici del centrocampo. Classe ’94, con studi prima in un liceo scientifico sportivo e poi una laurea alla ETSU (East Tennessee State University) in Scienze Motorie.
Dopo le prime esperienze calcistiche nel suo comune, l’approdo alla Fiammamonza. Poi il grande salto umano: USA, dove studio e sport procedono mano nella mano. La militanza nella Lady Buccaneers per ben 4 anni, dove Cecilia Re esperisce la prima idea di professionismo ad alto livello. Il ritorno nella madre patria nel 2017, la militanza per ben due anni al Mozzanica, prima di passar alla società attuale, la Florentia San Gimignano.
Mario Becagli era un pioniere dell’industria tessile di Prato. Negli anni ’60, inventa il pile e la pelliccia ecologica. Il figlio, Tommaso Becagli, sceglie il calcio femminile come proprio luogo di investimento. Florentia San Gimignano nasce nel 2015 con l’obiettivo di fornire un altro punto nella cartografia calcistica toscana. Il famoso piccolo borgo, metropoli medioevale, ha accolto la squadra con calore e trasporto, diventando durante le partite casalinghe un fattore decisivo. Quest’anno, al momento dello stop ai campionati, dopo un inizio difficile la squadra si attestava al 5° posto in classifica, a ridosso di armate come Juventus, Fiorentina, Milan e Roma.
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Cecilia Re opera nel centrocampo a tre della formazione come mezz’ala, con inserimenti puntuali e copertura difensiva precisa. Non disdegna però stabilirsi davanti alla difesa, come incontrista.
Il campionato, però, si è fermato, a differenza del calcio maschile, e non riprenderà prima di settembre. Lo scudetto assegnato alla Juventus. Un «sistema ancora acerbo ma promettente», come recita la lettera aperta delle calciatrici di Serie A, che non può permettersi i costi delle norme igienico-sanitarie richiesti dell’emergenza.
Cecilia Re, a proposito della lettera aperta delle calciatrici di Serie A, qual era il vostro intento?
«Il nostro scopo era far sapere a tutti il nostro punto di vista. C’erano troppe voci in circolazione, ma nessun attestato ufficiale. Un altro scopo è stato mostrare unità sulla stessa idea, evitando il brusio che affermava “le donne non vogliono riprendere”. Abbiamo chiesto soltanto le condizioni economiche e sanitarie migliori, evitando le soluzioni play off o play out».
Nella lettera si parla di dubbi e perplessità in merito alla ripresa.
«In Francia e Germania, campionati ben più attrezzati rispetto al nostro, c’è stata la sospensione. Le condizioni per riprendere dovevano prevedere un trattamento da professioniste, cosa che ancora è lontana».
Infatti, solo nel 2018 il calcio femminile è entrato sotto l’organizzazione della FIGC, con l’equiparazione però al calcio dilettantistico maschile.
«Questo è stato sicuramente un passo in avanti rispetto al passato. Il ministro Spadafora ha parlato di una nuova legge che trasformi il calcio femminile in uno sport professionistico. Tanto ha fatto, per il miglioramento del movimento, l’entrata sulla scena di società professionistiche maschili, come la Juventus, che hanno portato un modello di squadra diverso, con giocatrici pagate adeguatamente».
Perché prima non era possibile fare del calcio un lavoro, rimaneva tutt’al più una seconda occupazione.
«Sì esatto, qualche anno fa era necessario svolgere un primo lavoro, a cui affiancare l’attività di calciatrice. Ora, quasi tutte le calciatrici non lavorano più. Io stessa lavoravo e giocavo. Anche se il contratto non è ancora abbastanza tutelante».
A cosa ti riferisci, quando parli di tutele?
«I contratti sono per lo più accordi economici, ma lasciano scoperti diversi aspetti della vita di una persona. Basti pensare alla maternità…».
In effetti, la maternità è un tema fondamentale. Qual è la regolamentazione?
«Nel contratto non c’è nessuna tutela a riguardo. Se rimanessi incinta, la società potrebbe lasciarmi a casa senza alcun problema. La maternità è interpretata come un infortunio, a ben vedere. Esiste da poco tempo un fondo maternità per le atlete AIC, che prevede la garanzia alle atlete di proseguire il percorso sportivo interrotto durante la maternità e di dare una continuità retributiva anche durante il periodo di congedo. Ma per le società non c’è nessun obbligo contrattuale».
Hai giocato in America per qualche anno. Quali differenze hai riscontrato?
«La differenza principale è a livello scolastico. Da noi le giovani che si assentano da scuola per motivi sportivi fanno storcere il naso ai professori. Lì invece, c’è una sinergia, un contatto diretto tra professori e allenatori. Non c’è alcuna assenza da giustificare per motivi sportivi. C’è addirittura un legame tra merito scolastico e sportivo: se i voti non sono abbastanza buoni, si viene esclusi dall’attività sportiva».
Il calcio femminile è molto sentito dagli americani?
«Nei campi estivi, si possono trovare molte più bambine che bambini disposti a giocare a calcio. Gli stadi sono pieni per le partite femminili. La nazionale USA dopo il mondiale è stata ricevuta alla White House con tutti gli onori del caso».
In Italia invece qualcosa è cambiato dopo il Mondiale 2018…
«Il mondiale è stato l’inizio di un cambiamento di prospettiva. L’assenza della nazionale maschile ha coinciso con la grande visibilità che la RAI ha dato all’evento. Ognuno ha potuto vedere con i propri occhi di cosa si trattasse e appurare la pari dignità che ha il nostro mondo».
Esistono ancora però episodi di discriminazione.
«La prima discriminazione è quella economica. Con un lavoro identico a quello maschile, abbiamo un guadagno nettamente inferiore. Il calcio maschile muove interessi economici giganteschi da tempo, e noi non intendiamo sostituirci. Ma facciamo le stesse cose, e chiediamo un contratto che, quando siamo a fine carriera, non ci getti nell’angoscia di dover cercare altro per sopravvivere, ma che ci permetta di essere tranquille della nostra situazione».
Se Ceclia Re fosse ministra dello sport, cosa farebbe?
«Sicuramente partirei dai soldi da dare alle società per le strutture, per investimenti sulle giovanili, che al momento sono obbligatorie solo per le Under12, e che dovrebbero invece essere complete, fin dai primi calci. Vorrei poi che la gestione fosse nelle mani di chi è da anni nel movimento. Darei poi maggior visibilità, maggior pubblicità di storie o persone che al momento sono spesso solo per gli addetti ai lavori».
Come percepisci la folta presenza maschile nel calcio femminile, fatto che a parti invertite non si verifica?
«Io ho sempre avuto un ottimo rapporto con tutti gli allenatori e dirigenti con cui mi sono relazionata. La differenza la fa la mentalità di chi si inserisce nel nostro mondo, che è ben distante da quella del tifoso, che spesso invece vive con disagio e disprezzo il nostro mondo».
La ritrosia di alcuni uomini può essere legata al fatto che il calcio sia vissuto come comfort zone maschile, e dunque quella femminile è vista come un’invasione inopportuna.
«Sicuramente può esserci questo tema culturale. Diverse volte mi è capitato di giocare e sentire battute sulla mia presenza. Quando poi ne dribblavo uno, due, tre, iniziava addirittura a esserci nervosismo. Sta nella cultura e intelligenza delle persone capire che la passione è la stessa, che si chiede soltanto di poter giocare con la dignità che meritiamo».
Nella speranza che il calcio possa riprendere, quali ambizioni ha Cecilia Re?
«Sicuramente vorrei rimanere qui, alla Florentia. La squadra e la società sono in crescita costante, ci sarà un maggiore avvicinamento a San Gimignano anche per gli allenamenti. E poi c’è l’azzurro. È il sogno di noi tutte noi, la voglia di vestire quella maglia è grande».
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