«Siamo tornati a Cechov per ritrovare una possibile semplicità nella comunicazione attraverso la chiarezza e l’umiltà del naturalismo»: così spiega il regista Ferdinando Bruni nella nota di scena allo spettacolo Il giardino dei ciliegi, al Teatro Elfo Puccini fino al prossimo 22 maggio 2016. Gli “Elfi”, come li chiamano gli spettatori affezionati, muovono la loro ricerca su un humus naturale di realtà necessaria, declinata secondo variazioni che negli anni hanno toccato nomi fondamentali del teatro contemporaneo (Mark Ravenhill, Tony Kusher, Alan Bennett, Tennessee Williams), ma anche Bertolt Brecht e Anton Cechov.
Questo Giardino si potrebbe definire uno studio sul tempo: si tratta della riedizione 2006, con alcuni punti fermi e spazio a nuove leve. Ma soprattutto, il vero protagonista è il tempo, che i personaggi vorrebbero congelare e fermare, ma la vita passa e all’improvviso ci si rende conto di non averla vissuta. Tutto si svolge nel mondo chiuso della villa e il primo atto nella camera che ha visto i giochi dei bambini e gli arredi sono quelli di allora (tavolino, letto, armadio e poi una casa di bambole, la lavagna con alfabeto europeo e cirillico, le tavole illustrate in francese, i libri accatastati, un quadro). Ci sono anche alcuni inquietanti uccelli impagliati, simbolo di una condizione di volo e libertà vincolata, rappresa nell’artificio della mummificazione.
Tutto è uguale, ma mutato, perché vecchio e impolverato, corroso dal tempo, e la proprietà di famiglia sta andando in rovina. Soverchiati dai debiti e incapaci di prendere decisioni risolutive, i due protagonisti si dimostrano inadeguati, non solo ad affrontare il disastro economico, ma la vita stessa. Ljuba (Ida Marinelli) vuole fuggire dalle tragedie ma con una certa grazia masochistica corre incontro all’infelicità; il fratello Gaev, reso magistralmente da Elio De Capitani come una macchietta buffa di fatuo bambinone non cresciuto, ha sempre in bocca metafore del gioco del biliardo («gialla al centro, colpo di taglio all’angolo») ma non sa giocare la partita più importante, che è la vita. Se altre regie hanno evidenziato l’indolenza di una classe sociale in disfacimento, con esiti talvolta caricaturali, Bruni non è interessato a un discorso nostalgico o ideologico e sceglie una lettura asciutta del capolavoro, calibrando al meglio i ritmi e procedendo per sottrazione.
Infatti, niente alberi in scena né riproduzioni: il giardino dei ciliegi non si vede perché è fuori, a destra della scena, in un oltre indefinito che i personaggi spesso si fermano a contemplare con aria sognante. Questa presenza-assenza ne definisce i tratti di simbolo: giovinezza, purezza, felicità, lontane, inattingibili e perdute. Se gli oggetti della casa sono restati al loro posto con tutti i segni del tempo, il miracolo della fioritura invece si rinnova sempre uguale. Anzi, il giardino quest’anno è fiorito in condizioni proibitive, a tre gradi sotto zero! Il gelo è un’altra cifra della lettura di Bruni, che si lega alla percezione del tempo. In diversi passaggi, che coincidono con momenti di rarefazione pensosa, il cicaleccio dei personaggi si attenua, sovrastato da un tic-tac sonoro, e tutti si congelano in un fermo-immagine statuario, quasi volessero fermare quel tempo inesorabile che tutto divora.
Ad ogni cambio di scena sparisce una parte degli arredi, a sottolineare l’assedio del vuoto che incombe sulla casa e sulle vite dei personaggi. Il miraggio bianco del giardino in fiore invece è sempre lì, fata morgana scintillante che riassume in sé diverse visioni del mondo: l’intatta bellezza della felicità passata per i due fratelli; simbolo di oppressione dei lavoratori per l’intellettuale utopista Trofimov (Marco Vergani), che invece guarda al futuro e alla Russia intera come “giardino”; motivo di riscatto per Lopachin, che in nome del profitto abbatterà la scure sugli alberi piantati dai suoi antenati servi della gleba.
Intorno ai due protagonisti ruota la giostra di altri dieci personaggi, fra cui si distingue la prova dell’intensa Varja (Elena Russo Arman) e la concretezza terrigna del fattore Lopachin (Federico Vanni). Gli altri sono figurine appena abbozzate, come la misteriosa Charlotta (Corinna Agustoni), esperta in giochi di prestigio ma alla ricerca di una verità oltre le cose, tormentata da domande di senso sulla propria esistenza.
Le quasi tre ore di spettacolo sfilano senza sbavature né lungaggini, grazie a un’interpretazione essenziale, una regia acuta e precisa che ha saputo dosare ritmi e toni, all’insegna di una soavità malinconica capace di incantare. Non c’è infatti aria di tragedia, bensì di sospensione e attesa dell’inevitabile, rilevata dalla dialettica delle luci, che dal tepore seppiato degli inizi, si fanno più taglienti e gelide verso l’atto conclusivo: in scena restano solo alcuni bauli e l’armadio diventa fantasma di se stesso, coperto da un lenzuolo-sudario, mentre già si sentono i tonfi del crollo.
Il giardino dei ciliegi
di Anton Cechov
regia di Ferdinando Bruni
Teatro Elfo Puccini, Milano
3-22 maggio 2016
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