Mentre la sala del teatro si riempie, lei, Cassandra, c’è già. O meglio, è sempre stata e sarà: creatura archetipica del mito greco, ha traversato secoli, pagine letterarie e scene teatrali. Il mito, per sua natura “organismo vivente”, rifugge l’univoco e dilaga invece in mille rivoli che esaltano sfumature e chiazze di dubbio e mistero, e Cassandra parla ancora con forza al mondo attuale.
Figlia del re di Troia, città-simbolo di una guerra che porta morte e distruzione. Vittima dei carnefici vincitori, perché subisce violenza e poi, come le altre donne, è destinata al bottino di guerra degli Achei e quindi a un esilio in schiavitù. Soprattutto, Cassandra è una profetessa, condannata però a predire un futuro che resta mutilato, privo di persuasione: nessuno infatti le crede mai. Così ha deciso Apollo, per vendicarsi di essere stato da lei respinto. Cassandra è piaciuta molto alle femministe proprio per questo suo atto audace ed estremo di ribellione alla società patriarcale. Non solo. Alcuni le riconoscono tratti di un titanismo romantico, cioè di quell’eroe solitario che va consapevole incontro alla distruzione: Cassandra sa, ma non si cura della propria vita, non cerca di sfuggire. Anzi, dopo aver tentato invano di persuadere gli altri, sprofonda con loro nell’abisso, in una lucida coerenza che non cede a compromessi. Infine intorno a lei si condensa il dilemma della dicibilità e la paradossale ambiguità dell’espressione del Vero: il suo messaggio, anche quando raggiunge il massimo di chiarezza e intelligibilità, viene privato, a causa della maledizione, di efficacia persuasiva, e il destino compirà comunque il suo corso necessitante. Quali parole potrebbero fare breccia, e a che pro parlare, se nulla potrà incidere sul reale: interrogativi che si possono allargare al compito dell’intellettuale, che in tante occasioni resta profeta inascoltato.
Tutto questo complesso universo si respira nel denso spettacolo della bravissima Elisabetta Pozzi, che propone una lettura del personaggio alla luce di una polifonia di voci e interpretazioni, in un «concerto di parole» e mosaico di fonti che si inseguono e si sovrappongono fino a creare un discorso per l’oggi. Uno dei grandi pregi di questa “Variazione sul mito” di Cassandra è la tramatura dei riferimenti: non si avvertono cortocircuiti temporali, e infatti Eschilo dialoga benissimo con Wislawa Szymborska e Christa Wolf, e poi Ghiannis Ritsos subentra a Euripide e Virgilio, e la staffetta continua con Jean Baudrillard e lampi di Pier Paolo Pasolini e T. S. Eliot. L’effetto non è frammentario né segue un andamento lineare ed elencatorio, perché punteggiato di richiami e refrain.
Anche gli orizzonti sono mobili. Si comincia da Micene, soglia della morte, ma la mente torna inevitabilmente a Troia e si proietta a disegnare i contorni di un cosmo raggelato. Non a caso l’incipit «Ecco dove accadde» è quello del romanzo della Wolf, ma la Cassandra in scena indica ora il contenitore-teatro, e noi diventiamo pertanto i testimoni-spettatori della sua tragedia. Noi Micene, noi Troia, noi uomini del XXI secolo. La scena è cupa, disseminata di cornici vuote, simboli dell’assenza e della privazione, relitti di un mondo che fu. Un’enorme carriola di legno con le sponde rivolte verso l’alto somiglia allo scheletro della città distrutta, ma può anche essere la stilizzazione del Cavallo, e poi coricata in basso, diventa il carro di Agamennone davanti alla reggia di Micene.
La Pozzi è una Cassandra dai corti capelli rossi che, sui versi della Szymborska, ricorda dolente la sua solitudine, quando tutti davanti a lei interrompono giochi, risate e canzoni perché la temono. Eppure, immersi come sono nella vita, conoscono il sapore dell’istante presente che a lei, dotata dello sguardo dell’oltre, sembra dolcezza preclusa. Ricorda amaramente che gli stolidi mortali puniscono e odiano il messaggero del male, piuttosto che l’esecutore. Eppure bastava la volontà di vedere: quando si conosce il proprio passato e si osserva con lucidità il presente, è possibile intuire le linee del futuro che stiamo plasmando con le nostre stesse mani. «Il futuro ha le radici nel passato. Il suo seme è l’istante del presente», dichiara Cassandra. Ma tutti intorno a lei sono accecati da una comoda opacità dello sguardo, che nega la disgrazia fino all’ultimo.
Cassandra ripercorre le tappe salienti della sua storia (il rifiuto di Apollo, la solitudine, la fine di Troia per l’inganno del Cavallo, le violenze dell’ultima notte, il congedo da Ecuba, l’arrivo a Micene e la profezia della morte) ma le sue riflessioni continuano a dipanarsi intorno al nucleo essenziale del tempo. In questo filone compaiono per ben due volte le immagini potenti e vivide del poeta greco Ritsos. Dal poemetto Delfi (1962) la Pozzi prende a prestito lo sguardo sulla vanità delle cose umane. Tutto passa: uomini, regni e statue. Quelli che un tempo erano splendidi monumenti, ora sono relitti: «Rovine. Guerre su guerre. / Incendi, terremoti, saccheggi. Poi la quiete / delle rovine, tranquillizzante, consolante, senza fine». Sentinelle del tempo, testimonianze parziali e frammentate.
Rovine di ieri, che si confondono con le macerie dell’oggi: infatti i gemiti dei feriti e degli orfani, le fiamme, i cavalli impazziti, sono il paesaggio desolato di Troia, come pure di Guernica o Srebrenica. E ancora, grazie a Ritsos, con un effetto che forse poteva essere potenziato anche otticamente, si disegna il cromatismo simbolico del rosso (da Agamennone, 1970): per ordine di Clitemnestra le schiave srotolano tappeti di porpora davanti al condottiero stanco «come se spingessero le ruote rosse del destino», in un gesto vivido che echeggia i delitti del passato ed è già foriero di quelli futuri.
A più riprese Cassandra, indossando moderni anfibi e felpa con cappuccio, dà voce a tonalità profetico-apocalittiche, questa volta chiaramente dirette a noi, ma in perfetta linea di continuità con il mito. Perché ieri, oggi e domani coesistono nella sua visione profetica e anche nella storia dell’umanità. Per dire la catastrofe le parole sembrano inadeguate, e allora si ascoltano le voci di altri “profeti”: ecco la denuncia della perdita di identità nell’indifferenziato della società di massa (Pasolini), i sogni di onnipotenza tracotante dell’uomo contemporaneo, in realtà prigioniero della sua effimera fortezza dei consumi (Baudrillard). Si cita infine il libro del giornalista Massimo Fini La Ragione aveva torto? (1983), un pamphlet che a suo tempo aveva fatto discutere contro «l’ottuso e pericoloso ottimismo di Candide, di quanti credono di vivere nel migliore dei mondi possibile e non riescono a vedere che son seduti su una polveriera che è già scoppiata e che sono i figli di una catastrofe che è già avvenuta». L’inizio della fine – dice Cassandra – si ha quando la concezione del tempo ciclico è sostituita da quella lineare (il tempo dei mercanti, come ha insegnato Jacques Le Goff). Il futuro allora si quantifica unicamente in previsioni di guadagni, che si allargano e dilatano all’infinito in una cieca vertigine di orizzonti.
La visione univoca e irresponsabile di una crescita senza freni è come la metastasi di cellule impazzite: non è progresso, ma dinamica di squilibri. Il nostro mondo è costruito e ipotecato su un futuro illimitato che non esiste. «Ma se il futuro è inesistente, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c’è… Sul niente!». Quando comprenderemo finalmente la vanità del futuro tecnocratico-finanziario intorno a cui ruota la nostra società, forse sarà già tardi. Dalle profondità arcane del mito, Cassandra è tornata per dirci che il futuro è solo il parto della nostra mente. Dietro l’illusione del controllo preventivo del reale, è già in germe la catastrofe. Daremo ascolto a Cassandra?
Cassandra (o del tempo divorato)
regia, drammaturgia e interpretazione: Elisabetta Pozzi
con il contributo di Massimo Fini
Produzione Fondazione Teatro Due
Teatro Franco Parenti, Milano
1-13 marzo 2016
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