Da qualche giorno la carriera alias è al centro di un dibattito tanto sociale quanto politico: gli ultraconservatori si sono infatti schierati contro questa pratica volta a tutelare le persone transessuali che studiano e lavorano a scuola o nelle università. Una pratica fortemente attaccata da Provita e Famiglia Onlus, che ha redatto una «Carta dei principi» al fine di combattere una presunta ideologia gender che, dietro la spinta dei movimenti LGBTQIA, avrebbe invaso il mondo scolastico. Un «abuso giuridico» che ha portato i movimenti più conservatori a diffidare circa 150 realtà scolastiche per aver aderito alla possibilità di una maggiore tutela di studenti e studentesse.
Ma cos’è la carriera alias e perché ce n’è bisogno, senza alcuna ideologia? Si tratta della possibilità di cambiare il proprio nome anagrafico con un nome a propria scelta. Una possibilità preziosa per ragazze, ragazzi e ragazzə trans che non si identificano con il proprio sesso biologico e, quindi, con il nome scelto alla nascita. Il nome viene sostituito nei registri, nei documenti scolastici, e porta quindi al diritto informale di usare bagni, spogliatoi, divise e spazi legati al genere, qualora ancora ce ne fossero. Non sono necessarie certificazioni mediche o psicologiche, ma una semplice richiesta, così da dare il via a una buona pratica non ufficiale ma efficace.
La carriera alias arriva dal basso: lungi dall’essere una richiesta politica, ideologica, strategica, sono studentesse e studenti (con l’approvazione dei genitori se minorenni) a richiederla a fronte di una effettiva esigenza. E l’ascolto attivo di questa richiesta porta più benefici che perdite: maggiore benessere, meno dispersione scolastica per chi è costretto a stare a scuola con un nome (e quindi identità) che non riconosce come sua, minor bullismo, più riconoscimento sociale e inclusione. Il bisogno di riconoscimento è uno dei bisogni umani primari, ci dice Genderlens nelle sue linee guida, e questo bisogno deve essere ascoltato prima di tutto dalle scuole.
La critica – una delle tante – è però quella di una non continuità che genererebbe confusione: il cambio del nome avviene a scuola ma, per chi si schiera contro la carriera alias, non in altri contesti extrascolastici, portando quindi la persona (e chi gli/le sta intorno) a un maggiore spaesamento. Eppure è significativo che sia proprio la scuola al dare il via a questo piccolo grande passo, certo informale, ma necessario. La scuola che, insieme alle famiglie, dovrebbe essere il primo spazio di ascolto, supporto, accompagnamento nella crescita. La scuola come spazio dove si trascorre una quantità di tempo notevole e sufficiente affinché il proprio nome sia considerato come tale, e diventi parte integrante della propria identità.
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Ma è proprio la scuola lo spazio, fatta eccezione per alcuni casi, di maggiore tabù, di silenzio: un luogo dove l’educazione sessuale e l’affettività fatica ad entrare, dove si ha paura di parlare di corpi, generi, orientamenti, desideri verso di sé e verso gli altri. Lo spazio della conoscenza diventa paradossalmente lo spazio dell’incomunicabilità. E la paura della carriera alias non è altro che la paura di qualcosa che non conosciamo, un tabù – sul corpo, sulla sessualità, sull’identità – che ancora fatica a rompersi. Il voler proteggere i più giovani diventa la condanna a restare in un corpo, in un nome, in un pronome che non calza più.
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Per adesso sono 156 gli istituti secondari e 39 gli atenei che aderiscono a questa iniziativa, offrendo quindi la possibilità a chi studia di utilizzare un nome diverso da quello anagrafico. Non molte, ma abbastanza per cominciare a cambiare le cose dal basso, scuola dopo scuola. Non esistono però ancora delle linee guida in grado di supportare, anche burocraticamente, questo processo. Al momento, sono disponibili però linee guida non ufficiali, redatte da associazioni che si occupano del tema, per facilitare le scuole e gli atenei che volessero aderire.
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