È con un peso sul cuore che a pochi giorni dalla morte di Ettore Scola ci si appresta a parlare di un suo film. Non è necessario gettarsi nel solito panegirico ipocrita di cosa Scola abbia rappresentato per il cinema, cosa abbia insegnato, quale vuoto artistico abbia lasciato. Anche perché, se di vuoto si deve discutere, occorre fare i conti con quel problema generale che – al giorno d’oggi – stringe alla gola il cinema nostrano, sospeso tra autocompiacimento e mélo nostalgici, successi al botteghino confezionati su misura e timidi sprazzi di genialità tacitati sotto l’ombra di una scarsa comunicazione. Quello che Ettore Scola lascia non è un vuoto incolmabile, ma l’invito a riscoprire i valori di un cinema autentico, capace – lui sì – di rappresentare l’evoluzione della società italiana, far parlare i sopravvissuti, gli uomini qualunque non devoti al qualunquismo, le generazioni di giovani-anziani che si affacciavano per la prima volta sul precipizio della perdita delle illusioni. Se è vero che un’opera, una volta venuta alla luce, ha vita propria ed è slegata dal destino del suo autore, ai film di Scola spetta ancora e più che mai il compito di svegliarci dall’intorpidimento nostalgico […] Continua a leggere su NPC Magazine