Nelle ultime settimane, il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis, ha riportato l’attenzione mediatica sia sulle pene detentive, sia sulla qualità della vita nelle carceri italiane. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, nel rapporto di fine anno ha denunciato 87 suicidi negli istituti penitenziari italiani nel 2022. Tale dato, dice Gonnella, è il più alto dal 2009, anno in cui i suicidi in carcere sono stati 72. Ad oggi, nelle carceri italiane si perde la vita venti volte in più che nel mondo libero; si conta una media di un detenuto suicida su 670 in ogni struttura.
I dati relativi alle carceri italiane
Ogni anno, l’Osservatorio di Antigone si impegna, fa sopralluoghi nelle varie strutture e redige report sulle condizioni strutturali, il clima detentivo e il rispetto del diritto penitenziario. Il lavoro di operatori ed operatrici dell’Osservatorio è orientato dalle norme del Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’ Europa. Ciò che emerge dai dati statistici condivisi dall’associazione è molto preoccupante. I dati riferiti all’anno 2022 riportano che, per quanto riguarda le condizioni delle celle, solo il 58,7% di esse garantisce uno spazio di 3 mq calpestabili per persona, solo il 45,7% ha acqua calda tutto l’anno e il 55,4% comprende una doccia.
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Per quanto riguarda la socialità, nell’8,7% delle strutture non c’è uno spazio comune, nel 66,3% dei casi ci sono spazi per le attività lavorative e il 37% degli istituti penitenziari ha un campo sportivo. Le percentuali, come possiamo notare, non sono alte, ad eccezione degli spazi per corsi scolastici e di formazione che sono presenti nel 95,7% delle strutture.
Carceri sovraffollate
Uno dei problemi più importanti dei nostri istituti di pena è il sovraffollamento, il cui tasso a livello nazionale è del 107,7%: insomma, ci sono 57mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture detentive che potrebbe ospitare al massimo 51mila persone. Il sovraffollamento è prodotto anche dall’uso del carcere non solo come misura punitiva ma anche cautelare: molti detenuti sono persone in attesa di giudizio o di riesame che potrebbero stare ai domiciliari. Per di più la criminalizzazione di alcuni fenomeni sociali rende le celle gremite: persone affette da tossicodipendenza e problemi psichiatrici vengono incarcerate anziché essere indirizzate in strutture specializzate.
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L’articolo 27 della Costituzione afferma che la pena è personale, non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e mira alla rieducazione del condannato. In tal senso, la detenzione in carcere consiste in una misura punitiva che sanziona il reato commesso, alla quale però deve accompagnarsi sempre l’aspetto rieducativo. Nella condizione di sovraffollamento però diventa difficile rieducare: le cure mediche fornite, gli sforzi di prevenzione dei problemi legati alla salute mentale, la presenza di educatori e mediatori non sono abbastanza di fronte a questi numeri di detenuti da capogiro. Al 31 dicembre 2022 una panoramica totale delle carceri italiane stima la presenza di un agente penitenziario ogni 1,8% detenuti e un educatore ogni ottanta.
Il caso del “detenuto che dorme”
A prova di ciò, ad ottobre 2022 fece scalpore il caso di un detenuto, di 28 anni e in attesa di giudizio, che trascorreva giornate e notti nel carcere a Regina Coeli soltanto dormendo. Grazie alla denuncia di Susanna Marietti di Antigone, il ragazzo, soprannominato «il detenuto che dorme» oppure «il simulatore», è stato trasferito nel carcere di Secondigliano per eseguire accertamenti medici e ricevere cure adatte al fine di indagare il suo stato di salute. Prima della visita della coordinatrice di Antigone, il detenuto era in quelle condizioni da quattro mesi. Medici ed infermiere lo assistevano come un vegetale senza eseguire approfondimenti diagnostici.
Discriminazione fuori e dentro il carcere
Esiste anche il tema della composizione della popolazione di detenuti: la percentuale dei detenuti stranieri in Italia è superiore alla media europea di 11 punti e, secondo il Dipartimento penitenziario, gli immigrati costituiscono ben il 32% del totale degli individui in carcere. Questo dato trova il suo fondamento nei pregiudizi e nel razzismo, che esasperano le barriere culturali, socioeconomiche, di classe e linguistiche, esponendo gli stranieri a un rischio maggiore sia di delinquenza che di detenzione. In carcere la situazione non migliora, bensì l’assenza di equità persiste: la carenza del personale autorizzato nelle case di pena riguarda anche mediatori e traduttori, i quali sono incaricati di costruire un ponte di equilibrio e inclusività per prevenire l’emarginazione.
Minoranze e libertà di culto nelle carceri italiane
Tra diritti fondamentali vi è inoltre la libertà di culto, poiché coltivare la propria identità religiosa in modo corretto e non fuorviato è uno strumento importante di pentimento e riabilitazione. Eppure tale diritto spesso non viene garantito alle minoranze. Di norma i rappresentati religiosi di ogni culto devono incontrare i detenuti e garantire le funzioni religiose settimanalmente, in uno spazio consono e consacrato secondo la legge 354/1975 dell’ordinamento penitenziario. L’Islam è la seconda religione più diffusa tra i detenuti dopo quella cattolica, un indicatore significativo è rappresentato dalla grossa componente magrebina in regime di detenzione che supera le oltre 8 mila unità. Considerato anche la provenienza asiatica e africana, la percentuale arriverebbe a un detenuto su tre di fede musulmana. Durante la preghiera hanno bisogno di spazio, acqua per abluzioni, tappeto e della giusta direzione verso Mecca. Il problema del sovraffollamento rende impossibile svolgere le preghiere del venerdì in cella: se non c’è abbastanza spazio è impossibile pregare. Inoltre, le visite degli Imam ai detenuti sono molto limitate. Un altro punto critico è la messa a disposizione del cibo halal, che non è garantita in tutti gli istituti. Solo nel 2015, grazie ad un progetto pilota dell’UCOII, 8 prigioni in tutta Italia hanno garantito cibi halal, oltre a spazi e possibilità di momenti spirituali per i detenuti musulmani.
La pandemia e l’orrore di Santa Maria Capua Vetere
La situazione nelle carceri italiane è peggiorata con la pandemia di COVID-19, che ha causato la diminuzione della frequenza dei colloqui, delle ulteriormente carenti assistenza medica e organizzazione delle attività. Per altro, con il D.L. 8 marzo 2020 n°11, si è applicato anche il regime di chiusura totale delle porte delle carceri per evitare di avere un paziente zero tra i detenuti. L’ondata pandemica ha lasciato delle grosse crepe che faticano a chiudersi.
Il 2020 non è stato solo l’anno della pandemia, ma anche quello della mattanza di Santa Maria Capua Vetere. Il 6 aprile 2020, 283 poliziotti, provenienti anche da altri istituti, sono entrati in carcere e hanno massacrato di botte per circa quattro ore e mezza i detenuti del reparto Nilo, che ospita condannati per crimini minori. La spedizione punitiva degli agenti penitenziari si è scagliata sui detenuti in quanto rei di aver protestato per ottenere dispositivi di protezione individuale per evitare il contagio. Botte, sevizie, minacce sono state denunciate dai familiari dei detenuti e confermate attraverso i filmati delle telecamere. Ad oggi sono 200 le persone sotto indagine o condannate per il pestaggio.
Nel 2013 l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani per le condizioni degradanti dei detenuti, venendo ritenuta responsabile della violazione dell’art. 3 della CEDU. Alla luce di quanto emerso, è ancora lunga ma necessaria la strada per garantire tutti i servizi necessari affinché le carceri italiane diventino davvero un luogo di rieducazione e preparazione ad una nuova vita.
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