Cosa significa essere lettori? Che cosa è la letteratura osservata dal punto di vista di chi fruisce i testi? Cosa accadrebbe se, in tutta libertà, avessimo la possibilità di scrivere a un autore del cuore? Elena Ferrante è autrice italiana. Per la casa editrice E/O ha pubblicato L’amore molesto (1992), I giorni dell’abbandono (2002), La frantumaglia (2003 e poi in edizione ampliata nel 2007), La figlia oscura (2006), La spiaggia di notte (2007) e la tetralogia de L’amica geniale (2011-2014). La sua identità è tutt’ora sconosciuta.
Cara Elena,
come trovare il modo giusto per rivolgersi ad uno scrittore del proprio tempo? Eviterò i prologhi, le enfasi, i cappelli introduttivi. Farò, come insegni tu, la cosa più giusta: andare dritti al cuore senza passare per scorciatoie.
Ho letto L’amica geniale – tutto, i quattro volumi – e ti devo confessare che, al pari di un cattivo lettore dalla cultura lacunosa e saputella, sono partita dalla fine, cominciando proprio da qui. Ho imparato a conoscerti a passo di gambero: iniziando dalla tua ultima opera e poi andando indietro, scoprendo coincidenze e richiami. Dopo L’amica geniale le assonanze sono arrivate tutte insieme. Mi sono accorta che I giorni dell’abbandono, visto anni fa in una sala buia da cinema di periferia, era materia tua, storia tua, veniva da te. Ho scoperto che Mario Martone – proprio lui! – aveva tratto un film da L’amore molesto. Molesto per non dire I molestatori. Ti ho sentita vicina poiché tutti, prima o poi, un amore doloroso, sbagliato, sghembo, l’abbiamo vissuto. A passo di gambero ho trovato lettere, frantumaglie, interviste scritte sulla carta – che la tua voce, ormai l’ho capito, passa solo da lì – altri volumi e figlie oscure. Sono andata all’indietro partendo dalle amiche geniali, ho corso sperando di acciuffarti e poi, fermandomi, ho tirato il fiato.
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Allora ho capito due cose: la prima è che la letteratura italiana non è morta. Capirai, dirai tu: di nomi ce ne sono tanti! Guarda i Premi Strega, guarda quei viventi a cui dedicano Meridiani (il nuovo Gianni Celati ne è un esempio). Guarda le riviste letterarie, quelle che contano, dove giovani critici militanti fanno pronostici su i nomi che resteranno: c’è Antonio Moresco, Michele Mari, Walter Siti. Lo so, lo so. Ma non è questo che intendo. Ti voglio dire che per me la letteratura non è morta quando nel leggere, seduti sul sedile sporco di un treno da seconda classe, perdiamo la fermata.
La colpa è tutta di Lila e Lenù. Dei fattacci del rione che ci hanno trascinato in basso. Il naso è appiccicato alle righe, non riusciamo ad alzare la testa e il braccio rotto di Lila, quando suo padre l’ha scagliata fuori dalla finestra solo perché desiderava studiare, diviene il nostro stesso braccio. Ci fa male come se la botta l’avessimo presa noi. La letteratura non è morta se il lavoro, la spesa, le faccende di casa, le telefonate incombenti ci sembrano una rovina, una persecuzione, un furto all’unica attività che vorremmo fare: leggerti per non farti finire. Sembra un ossimoro e lo so che è una contraddizione.
Ma accade così. Non vogliamo sapere come si concluderà, se ritroveranno Lila, se è viva o morta, dove è andata a finire. Leggiamo con l’unico desiderio di vivere il tempo di mezzo, quella cosa magica che tu chiami «il terzo libro», il volume che esiste tra te che lo scrivi e io che lo leggo. Il libro immaginato e sentito, quello che tu restituisci e che noi facciamo nostro, lo trasformiamo adagiandolo sulla nostra vita. È diverso ma non per questo meno autentico.
Cara Elena, ti scrivo per dirti che la letteratura italiana contemporanea non è morta perché ci sei tu. Perché a leggerti viene voglia di chiudersi in una stanza con molta luce a bere tè bollente lasciando il mondo fuori. Perché mondo sono le tue pagine, le parole, gli spazi bianchi che si fanno silenzio, le lacrime di rabbia, di insoddisfazione, di sfida, amore e odio. Perché fuori dalla finestra ci sta la vita ma dentro il libro c’è la voce segreta di tutte quelle cose dolorose e care e orrende che ci hanno lavorato dentro e a cui non abbiamo saputo dare nome. Perché leggendoti ci s’accorge che al fondo un nome c’era, un nome per dire l’indicibile, l’innominabile, quel sentimento seghettato e meschino attraversato da benevolenza e nostalgia e rimpianto.
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Quel sentimento con cui siamo cresciuti, che ci schiaffeggia a pieno viso le nostre debolezze, le bassezze di cui ci macchiamo, i desideri segreti – violenti – gli amori a cui non s’è data risposta. Ecco. Tutto questo sta lì dentro, nei libri tuoi, tra pagine fitte che fino a poco tempo fa ignoravo, che occhieggiavano dalle librerie, in brevi recensioni di lettori più o meno entusiastici, siti internet pieni di pubblicità che avvertivano: «attenzione questo articolo contiene spoiler». Non è di questo che abbiamo bisogno, te l’ho detto, a leggerti non viene voglia di sapere come andrà a finire. A chi mai può interessare la conclusione di un’esistenza? Nessuno.
Ci importa piuttosto di capire, capir-ci, scoprire nell’allegoria di un personaggio la verità fonda – insondabile, molle – del proprio tessuto interiore, del proprio essere uomini nel mondo. Sono risposte che non arrivano: le verità sono frasi mozzate, punti interrogativi che rimandano all’origine. Nessuno può sapere che cosa ci contraddistingue veramente, quale è il mistero di un carattere, delle relazioni impossibili tra esseri umani, la materia dei sentimenti che restano inattingibili, piaghe oscure del cuore. Eppure tu, con la tua lingua lavorata, meditata in anni, in scritture, tagli, sforbiciate e rifacimenti – qui penso a tua madre, la sarta, e mi viene in mente l’Elsa Morante delle «sarte madri», il tuo omaggio a distanza – tu con la tua voce nera su pagina bianca riesci a dire. Trovi il modo per non vergognarti di te, dunque di noi, ci consegni verità scomode e cattive di cui abbiamo sempre avuto consapevolezza senza mai riuscire a nominarle. Per timore, infinita vergogna.
La seconda cosa che ti voglio dire è che non voglio sapere chi sei. Non m’importa di scoprire quale è il volto mancante ritagliato per scherzo dalle copertine dei tuoi libri. Non voglio sapere che faccia hanno le bambine, le spose, le donne dei tuoi volumi se mai un giorno decidessero – per scherzo, per rovina – di voltarsi a guardare il lettore dritto negli occhi. Non voglio sapere il colore dei tuoi capelli, quante stanze ha la tua casa, cosa ti piace mangiare a colazione e se ami gli animali, il colore viola, le tessere del mosaico. Quel che devo sapere di te, la verità più fonda, i segreti più densi, tu li hai già dati, li hai detti e ridetti nei libri, ti sei svuotata, denudata, data con generosità, senza freni, senza paure. E hai ragione: non li capisco nemmeno io quei giornalisti che ti gridano «facci sapere chi sei, vogliamo amarti meglio, vogliamo amarti di più, per capirti dobbiamo sapere!». Non li capisco e non mi fido.
Rido quando leggo che tu sei solo un’operazione commerciale, che non esisti, che il libro s’è scritto da solo, che la casa editrice E/O ha inventato un espediente per far soldi e c’è riuscita. Facezie, querelles da giornale di terz’ordine. Di te so molto, so tutto quello che c’è da sapere. So del tuo lavoro, di come passi il tempo a studiare, tradurre, insegnare, scrivere. So delle mani di tua madre quando tagliava le stoffe e del suo profumo di confetto. So di te bambina, gli stanzini bui della tua infanzia, i giochi con le sorelle, Napoli, l’università, gli studi classici. Lo so perché me lo hai detto tu. Ma più di tutto so di te ciò che sta nelle tue storie: la scrittura che si mischia al dialetto di Lila, alle parole di Olga, ai libri di Lenù. Sento te che parli con e ai personaggi e intrecci a loro la tua vita di figlia, di madre, bambina, moglie e amante. So di te che sei una donna e non li capisco quelli che gridano nomi a caso: «è Goffredo Fofi che si intervista da solo!», «è Domenico Starnone!», «lo sanno anche i sassi che Elena Ferrante è lui!». Ma da dove parlano? Da che pulpito si esprime la gente?
So tante cosa che ora non ripeto perché la scrittura, anche quando diviene pubblica, resta in qualche modo un fatto privato. Ha a che fare con chi l’ha data e con colui che la riceve: è uno scambio intimo, un colloquio tra muti. Nel mezzo ci sta il vissuto. I libri, se sono ben riusciti e non carta morta, danno in pasto al mondo anche questo: la carne e il sangue di chi li ha pensati, faticati e amati prima di farne opera collettiva. Tutte le altre cose intime e sottili che so di te se ne stanno chiuse tra le tue pagine: in qualche modo sono alla portata di tutti, pronte ad essere scoperte e macinate nel silenzio di una stanza chiusa. Scrivendo ti sei già data, non hai bisogno di mostrarti, di fare di più. Avere un contatto con te non significa andare alla morbosa ricerca di chi si cela dietro il tuo pseudonimo. Ti si legge per il semplice gusto di sapere che cosa hai da dire, in che modo l’hai detto, il perché hai scelto questa forma – la letteratura – matrice fuggevole ma necessaria del nostro esistere.
di Ilaria Moretti
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