Il sì al taglio dei parlamentari ha decisamente trionfato al referendum del 20 e 21 settembre. Molti, soprattutto tra elettori del centro-sinistra, intellettuali e giornalisti, si sono scagliati contro la misura, ma cosa c’è alla radice del sentimento anti-casta all’origine del taglio dei parlamentari? Quali sono i problemi del nostro Parlamento? E soprattutto ora, cosa ci riserva il futuro?
La riforma per il taglio dei parlamentari
Domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani hanno votato per decidere se tagliare o meno il numero dei parlamentari da 945 a 600 (rispettivamente da 630 a 400 alla Camera e da 315 a 200 al Senato). A scrutini terminati il quesito referendario – rimandato causa Covid dal 29 marzo – ha visto il trionfo del sì con il 69,96% dei voti e l’affluenza al 51,12%. La proposta di tagliare il numero dei parlamentari non è nuova nel panorama politico italiano: il primo a proporla fu Aldo Bozzi nel 1985 e venne ripresa poi altre cinque volte nell’ambito di riforme più strutturate e articolate. L’attuale proposta, targata M5S, ha visto solo 64 voti contrari tra Camera e Senato. Quasi tutte le principali forze politiche (Lega, Pd, M5S, Fratelli d’Italia) infatti si sono schierate per il sì, pure se con dissidi interni.
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Nulla di cui stupirsi
Non stupisce affatto la vittoria del sì. Perché buona parte di chi ha votato sì al referendum (escluso i razionalmente convinti di migliorare le cose) l’ha fatto per un’antipatia anti-casta. È qualcosa di radicato nel Paese, non può stupire perché ha ragioni storiche e sociali profonde che vanno oltre la demagogia. Alla base di questo sentimento stanno infatti i problemi del nostro Parlamento: non solo l’immagine delle aule vuote o dei parlamentari in fuga col trolley, ma anche l’idea di un Parlamento senza un reale potere. Perché, discorsi a parte, la realtà è che i voti su leggi e governi vengono spesso decisi fuori dal Parlamento e il parlamentare – in una buna parte della narrazione comune – ha il solo compito di schiacciare il pulsante giusto (e a volte ci mette pure anni), quando in realtà dovrebbe essere il massimo rappresentante del popolo.
Il Parlamento si occupa sempre di più della ratifica delle decisioni del premier e dei partiti o di commissioni. Ed è chiaro che poi anche il lauto stipendio sembra esagerato. In più c’è anche il problema della territorialità. Se l’amministratore locale vota su piccole cose concrete che migliorano la quotidianità, il parlamentare vota cose astratte che apparentemente non rendono diverso nulla. Il parlamentare, per capirci, non ha contatto con il territorio e forse il problema sta proprio qui: si ha l’impressione che raccolga i voti e scappi.
L’istituzione-vergogna
C’è poi anche da dire che se in questi anni c’è stata un’istituzione non degna di questo nome, questa è stata proprio il Parlamento. Prima per gli scandali economici (da Tangentopoli in poi la lista è lunga), poi perché in Parlamento ci sono entrati tutti, ma proprio tutti. Un simbolo tra molti resta Paola Taverna, vicepresidente del Senato ed ex membro della commissione sanità. Lei, che diceva di preferire la medicina preventiva ai vaccini. E poi la famosa mortadella, Razzi, Isidori, e la lista potrebbe ancora andare avanti.
Una non-risposta al taglio dei parlamentari
L’antipatia nei confronti del Parlamento è stata raccolta e aizzata prima dalla Lega con la retorica anti-casta e anti-Roma, e poi da Grillo con i suoi “È tutto uno schifo, è tutto un magna magna“, di cui questo referendum è figlio. Il taglio dei parlamentari – è chiaro – non è una risposta né una soluzione a questi problemi: non riduce la corruzione né aumenta i poteri del Parlamento, né tanto meno favorisce la territorialità (anzi). Purtroppo, però, nella nostra società di massa più una soluzione è avventata e radicale e più è gradita, e a morte la complessità! Ma il vero dilemma è che non si siano risolti prima problemi che attanagliano la nostra democrazia dalla sua nascita, lasciando gli elettori in pasto a squallida demagogia da piazza (lamentandosi poi dell'”ignoranza” del popolino). Praticamente equivale a gettare nel fango qualcuno e lamentarsi della sua sporcizia. Perciò il biasimo non può andare a chi ha votato sì, ma a chi ha lasciato che il sì fosse l’unica soluzione e a una politica che si è schierata compatta a favore della posizione della maggioranza per qualche voto. Perché se esistono populismi e fascismi è anche perché qualcuno ha creato loro l’habitat, inseguendoli nei temi invece di combatterli.
Qual è il futuro del Parlamento?
La vittoria del sì al referendum rischia di essere un preludio ad una sempre maggior perdita di potere del Parlamento. Sarebbe coerente con lo spirito dei tempi anche vedere un premier con sempre più poteri (Lega e FdI ad esempio auspicano il modello del Presidenzialismo). Si vedrà probabilmente un ancor maggiore calo della territorialità dei parlamentari e magari un ulteriore svilimento del loro ruolo. Nessuno si aspetta le bombe atomiche, sia chiaro, ma di certo questa riforma sta nello spirito di tempi che esigono slogan e leader forti, non discussioni e assemblee. Ed è anche figlia di un Parlamento malsano: perché, se il Parlamento ha perso, non lo ha fatto il 21 settembre ma ha fallito quando ha lasciato terreno fertile ai suoi nemici. E capire la malattia della nostra democrazia è il primo passo per curarla.
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