La Bellezza non salverà il mondo se prima non salviamo lei. È questo il monito che il filosofo coreano Byung-Chul Han tratteggia nel suo La salvezza del bello (Nottetempo, 2019) in cui ripercorre criticamente le tappe fondamentali della riflessione estetica europea sul bello dagli albori ad oggi.
Libertà dell’arte? No, libertà del capitale
L’estetica contemporanea, secondo la lettura di Han, ha deprecabilmente tradito i presupposti intessuti dalla riflessione estetico-filosofica occidentale. Una riflessione cui fanno capo grandi nomi della storia del pensiero, da Platone a Kant a Hegel. Nell’analisi di quest’ultimo, il bello, ad esempio, poteva dimorare solo nel disinteressato e l’arte, di rimando, porsi solamente come una prassi di libertà e conciliazione in cui il soggetto si trova in un rapporto libero con l’oggetto estetico. Oggi più che mai, al contrario, la libertà dell’arte si trova subordinata alla libertà del capitale.
L’intuizione estetica contemporanea da contemplativa si è trasformata in consumistica: l’oggetto, prima ancora di entrare in un rapporto estetico con il soggetto che gli sta di fronte, viene già direttamente irreggimentato nella sfera del consumo. È ciò che ad accade con un tramonto, con un paesaggio, o un’opera esposta in un qualsiasi museo in una qualsiasi parte del mondo: nella maggior parte dei casi, prima ancora di rapportarci esteticamente a ciò che stiamo guardando stiamo già regolando le impostazioni fotografiche dello smartphone per immortalarlo, consegnarlo al prossimo post e alla schiavitù algoritmica dei like. Un Van Gogh da Amsterdam o un tramonto da Positano possono avere molto in comune, ambedue spesso destinati al consumo digitale dei follower ancor prima che all’immersione contemplativa dei loro spettatori.
Il bello non si sottomette ad alcun al fine di […], poiché esiste per se stesso e riposa in se stesso. Per Hegel non sarebbe bello alcun oggetto d’uso, alcun oggetto di consumo, alcuna merce, poiché queste cose mancano di quell’indipendenza e quella libertà che del bello sono tratti essenziali. Consumo e bellezza si escludono reciprocamente.
Il culto della levigatezza: vedere senza ferirsi
Ciò che più ha concorso all’impoverimento del concetto di Bellezza resta, per Byung-Chul Han, il cosiddetto “culto della levigatezza”: il culto delle superfici ottimizzate prive di increspature, così come di profondità e abissalità. Il mondo della levigatezza è il mondo della mera positività, un mondo senza fenditure che ci priva di quella possibilità di essere feriti che costituisce la sintassi essenziale dell’esperienza artistica. La radice di questa tendenza viene rintracciata da Han nel progressivo scollamento dei concetti di bello e sublime, denti di una stessa cerniera nell’estetica antica e moderna – o almeno, fino a Burke – ora confinati in due domini tristemente separati. Ma vedere senza ferirsi è impossibile: lo scuotimento peculiare dell’esperienza artistica ci rende vulnerabili, ci pone a stretto contatto con le nostre fragilità, aprendo una finestra sui nostri squarci. Dalle fenditure nasce la possibilità di sporgerci sull’abisso, e per l’abisso la possibilità di guardare dentro di noi a sua volta (metaforizzando un certo Nietzsche). Per dirla con Rilke, «il vedere si espone interamente a ciò che penetra nella zona ignota del mio io».
Ma all’arte figlia del capitale e del consumismo digitale non interessa ferire, non interessa produrre alcun urto che scuota chi la contempla: a quest’arte interessa solo piacere. È un’arte che non naviga verso zone ignote del nostro io, a cui non interessa generare dissenso, dibattito, smarrimento, ma che si accontenta di adagiarsi banalmente su ciò che l’osservatore già sa e che già crede di essere. Non stravolgimento, ma riconferma, non urto, ma compiacimento: «manca lo sguardo di Medusa che suscita scuotimento e pietrifica», ed è così che il bello si estenua nel “mi piace”, in una sedazione della percezione in cui estetizzazione e anestetizzazione vanno a coincidere. I fondamenti di quest’estetica del bello digitale e del suo confezionamento sono conosciuti fin troppo bene da Facebook ed Instagram, strenuamente dediti al proponimento di contenuti scelti sul calco degli interessi e delle preferenze confermate dai dati di navigazione dei loro fruitori.
Il bello digitale secondo Byung-Chul Han
Il contrassegno del bello digitale è il sentimento di piacere privo di negatività, il mi piace. È del tutto eliminata la negatività dell’altro, [esso] è completamente levigato e non deve contenere alcuna incrinatura. Il bello naturale, al contrario, è antitetico alla determinazione […], è indeterminabile, e in ciò parente della musica. Come in musica, ciò che in natura è bello balena subito per sparire davanti al tentativo di acciuffarlo.
Nel bello digitale, nel bello come prodotto in generale, manca quella dimensione di nascondimento che costituisce la cifra essenziale della Bellezza. Quell’opacità, quella latenza, quel ritmico alternarsi di presenza e assenza che crea una «linea di galleggiamento dell’immaginazione» che tiene desto l’osservatore, interrogandone la percezione e l’universo di senso, significati e simboli che ad essa fanno sempre da satellite. Si tratta di una Bellezza levigata, limpida, apollinea, inospitale al dionisiaco, alla possibilità del velamento e del mistero, e dove tutto ciò che appare è tutto ciò che si può vedere. Essa rinuncia così alla possibilità di sedurci, se è vero che «erotica è la messinscena di un’apparizione-sparizione: incrinatura, fenditura e fessura costituiscono l’erotismo. Nella seduzione è insito un pathos della distanza, un pathos del velamento».
Una società del close-up
Emblema di questa Bellezza di cui viene interrogata solamente la superficie è il selfie, massima cifra di quella rinuncia alla profondità e alla complessità peculiare del culto della levigatezza. Se nell’estetica kantiana trovavamo una «morale della bellezza» – un giudizio estetico, cioè, in grado di valicare la mera dimensione del semplice gusto e di dare vita ad un giudizio di gusto intellettualizzato congiungente gusto e ragione, bello e buono – oggi ci confrontiamo con una Bellezza che non ha più nulla da chiedere alla virtù, o al carattere.
Ricorriamo così a dei close-up che tagliano fuori con presunzione il mondo circostante e in cui il volto – non più «pregno di mondo», pertanto privo di interiorità e abissalità – diviene autoreferenziale, performando un vuoto interiore dell’io privo di espressione. Il selfie è l’io nella sua impossibilità di dire altro al di fuori della propria parvenza. È l’io che rinuncia al carattere, etimo derivante dal greco charassein che nel suo significato di “scavare” ci rimanda al campo semantico della profondità. Nessun carattere da dichiarare dietro quella facciata (dal latino facies) che non richiede alcuna profondità di campo per spettacolarizzare il «sé nelle forme del vuoto».
Byung-Chul Han e la salvezza del bello
Questa Bellezza, in conclusione, non salverà il mondo, ma noi possiamo ancora salvare lei. Ma come? Bisognerebbe forse ritornare a Platone, la cui teoria estetica intima di non rapportarsi al bello in modo passivo e consumistico, ma in modo attivo e generativo. E sotto il segno di Eros. Al cospetto del bello, Eros risveglia nell’anima una forza generativa. Così Eros chiama a “generare nel bello”. È Eros che guida il pensiero e gli mette le ali. Senza la presenza di Eros, ad esempio, il pensiero scade a mero lavoro. Il lavoro, che è antitetico ad Eros, profana il pensiero e toglie ad esso il suo incanto. E Byung-Chul Han, in questo senso, sembrerebbe voler abbracciare il messaggio platonico quando sostiene che ciò che protegge ogni ente dalla possibilità di divenire oggetto di consumo, oggetto di piacere immediato, non è altro che Eros. Nel Simposio platonico è grazie al contributo del bello che Eros può avere accesso a tutto ciò che è eterno, che impegna a responsabilità e memoria: opere poetiche, filosofiche, politiche (persino le “belle leggi” per Platone sono opera di Eros). La soluzione, dunque, consiste forse nel rimettere Eros al centro di tutto ciò che possiamo compiere, immaginare, creare, contemplare, con passione e responsabilità, non temendo né l’abisso né lo smarrimento. In apnea sotto la superficie del meramente apparente, del piacevole e del confortevole.
Perché «dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva». E dove dimora Eros è lì che noi torniamo a generare nella e per la Bellezza, nel segno della sua salvezza.
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Bellissimo articolo, ha il merito di mettere in evidenza il pensiero di Byung-chul Han con una scrittura appassionata e coinvolgente.