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Malinowski

Antropologia e metodo in Bronisław Malinowski

Tra i più importanti antropologi del Novecento, Malinowski ha delineato i principi guida del metodo etnografico, basandosi sullo studio del cerimoniale kula. In cosa consiste questo rito? E quali sono i criteri che, secondo lui, ogni antropologo dovrebbe seguire?

4 minuti di lettura

Bronisław Malinowski (1884-1942) è stato uno dei più importanti antropologi del secolo scorso. Padre della moderna etnografia, con il suo capolavoro del 1922Argonauti del Pacifico Occidentale – dedicato alla complessa dinamica del cerimoniale kula (una forma di scambio rituale praticato nelle isole Trobriand in Nuova Guinea) ha rivoluzionato il metodo dell’antropologia culturale, con la pretesa di farne una scienza a tutti gli effetti.

Il “kula”

Il kula è una cerimonia rituale che si svolge nelle isole Trobriand e consiste nello scambio di una delle collane di conchiglie dal colore tipicamente rosso o bianco. La dinamica che guida lo scambio è rigida: i partecipanti, che s’imbarcano in canoe per viaggi da centinaia di chilometri, seguono un percorso in senso orario (da sud a nord) per scambiare le collane rosse, e viceversa (da nord a sud in senso antiorario) per scambiare quelle bianche. Lo scambio, ecco un’altra regola, può avvenire solo tra oggetti diversi. Insieme allo scambio delle collane, preparato da rituali e feste, a lato del kula avvengono anche forme di commercio vere e proprie, basate sul rapporto di fiducia reciproca che si instaura tramite la cerimonia. C’è dunque un valore economico dello scambio, che sembra rovesciare il principio utilitaristico al centro dell’antropologia filosofica moderna, secondo il quale, l’uomo nell’interazione con l’altro uomo, cerca esclusivamente il proprio utile.

Oggetto, metodo e fine della ricerca, secondo Malinowski

Il capitolo che apre gli Argonauti delinea estesamente i principi metodologici seguiti da Malinowski nel corso della sua ricerca sul campo. Il titolo del capitolo è Oggetto, metodo e fine della ricerca: oggetto è lo scambio kula, inquadrato all’interno della vita culturale degli abitanti delle Trobriand; metodo è la cosiddetta osservazione partecipante; fine è l’attingimento, da parte dell’antropologo, del punto di vista dei nativi. Nella storia dell’antropologia culturale, la premessa metodologica che introduce al testo degli Argonauti fu cruciale, anzi, segnò per le future generazioni di etnografi un punto di non ritorno. Ora, con Malinowski, si dava spazio sistematicamente alla ricerca sul campo, guidata da regole chiare e distinte; l’antropologia sarebbe divenuta scientifica, a patto di definire i principi metodologici che ne guidavano l’analisi: con Malinowski pareva possibile coniugare umanesimo e scientificità

Scrive Malinowski nelle prime righe del capitolo:

«In etnografia […] un’esposizione senza pregiudizi di tali dati (cioè relativi al lavoro sul campo) non è mai stata fornita in passato con sufficiente generosità e molti autori non illuminano con piena sincerità metodologica i fatti in mezzo ai quali si muovono, ma ce li presentano piuttosto come se li tirassero fuori dal cappello del prestigiatore».

Ciò che manca in antropologia, sostiene Malinowski, è la preliminare chiarificazione dei metodi adottati nella ricerca e, insieme, l’esposizione ordinata dei dati raccolti nel corso del lavoro sul campo. Se l’etnografia vuol essere scienza deve ricercare l’oggettività, ossia perseguire l’assenza di pregiudizi, l’asetticità dell’antropologo nel corso dell’esposizione. Antropologo che, per questo, deve prima di tutto chiarire 1) il metodo della ricerca da lui impiegato; 2) le fonti dei dati esposti; antropologo che, in questo senso, deve riportare fatti, non mere interpretazioni, giustificando di volta in volta ogni sua osservazione. Dunque, i risultati della ricerca scientifica «devono essere presentati in modo assolutamente imparziale e sincero».

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Regole chiare e distinte

Il modello qui seguito da Malinowski è quello delle scienze pure. In sede di teorizzazione, cioè, l’antropologo deve mostrare chiaramente le «esperienze reali» attraverso le quali è pervenuto alla propria conclusione. Risuona come un’eco, in questi precetti, l’insegnamento galileiano circa le sensate esperienze e le necessarie dimostrazioni, imprescindibili per progredire sulla via della scienza.

A questo punto, Malinowski, introduce un principio metodologico cruciale: affinché la teoria sia, per così dire, attinente ai fatti, non solo è necessario esporre le esperienze dell’antropologo, ossia le «deduzioni dell’autore basate sul buon senso e sul suo intuito psicologico dell’altro»; non solo, ma è anche necessario distinguere queste stesse deduzioni dalle «affermazioni e le interpretazioni degli indigeni». L’antropologo deve cioè tracciare un confine netto tra quanto da lui supposto e quanto invece proveniente dalla bocca dell’indigeno. Da un lato, dunque, ciò che dice e pensa l’antropologo dell’indigeno; dall’altro, ciò che realmente dice e pensa l’indigeno. Le due cose devono esser separate e separabili, e mostrarsi chiaramente nella differenza reciproca.

Malinowski e la tribolazione dell’etnografo

La «tribolazione dell’etnografo», come la chiama Malinowski, è tutta qui: l’etnografo arrischia a vestire insieme i panni dell’intervistatore e dell’intervistato; deve, in questo senso, oggettivare i due estremi del rapporto, il sé e l’altro, al fine di guardarli entrambi con occhio contemplante, teoretico, con l’occhio della scienza.

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Il problema che tocca Malinowski a questo punto è chiaro: come differenziare in modo così categorico il sé dall’altro? Come render conto oggettivamente delle peculiarità delle due prospettive, quella dell’antropologo e quella del nativo? Ritorna il metodo: per far quanto appena detto, è d’obbligo per l’antropologo applicare «un certo numero di regole di buon senso e di principi scientifici ben noti». Tali principi possono così essere compendiati: 1) possedere reali obiettivi scientifici, conoscere cioè i valori e i criteri della moderna etnografia; 2) disporre di condizioni ottimali per il lavoro sul campo, ad esempio: tenersi lontano dagli «uomini bianchi» per insediarsi direttamente nei villaggi indigeni; 3) applicare alcuni metodi particolari e sicuri per raccogliere, definire ed elaborare le testimonianze ottenute. Sono queste le «pietre angolari del lavoro sul terreno».

L’immersione nella vita dell’indigeno e l’applicazione del rigoroso metodo compilativo-osservativo, ci aprono all’obiettivo finale della ricerca, che l’etnografo non deve perdere di vista: «questo obiettivo è, in breve, quello di afferrare il punto di vista dell’indigeno». Dell’uomo bisogna studiare «la presa che ha su di lui la vita». Il modello ermeneutico dell’empatia è qui manifesto. L’antropologo, così come ne traccia il profilo Malinowski, riesce nel suo intento quando si traspone nella soggettività dell’altro, per afferrarne la visione del mondo, il punto di vista. L’empatia dev’essere totale, senza che, tuttavia, l’antropologo si dimentichi di sé. Egli osserva partecipando alla vita del nativo. Tiene, per così dire, un piede in due scarpe. L’antropologo è «fedele ai fatti» e «indipendente dal sentimento».

Sarà questo il punto di partenza (da scardinare) per tutti i decenni successivi di antropologia culturale.

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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

1 Comment

  1. Sono una studentessa dell’Università Ca’ Foscari di Venezia nel dipartimento di Beni Culturali, leggere questo articolo mentre sto frequentando un corso di Antropologia è stato immensamente affascinante, pieno di spunti e nozioni utili per il mio studio e arricchimento personale. Grazie.

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