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Born in the U.S.A.

«Born in the U.S.A»: il grido di Bruce Springsteen sugli Stati Uniti

dalla newsletter n. 44 - novembre 2024

4 minuti di lettura

Born in the U.S.A. di Bruce Springsteen è uno dei brani più celebri e significativi della storia della musica rock. Pubblicata nel 1984, la canzone è considerata uno dei capolavori del Boss, anche se è molto di più di ciò che sembra. Spesso è percepita come un inno patriottico, ma invece contiene un messaggio ben più profondo e critico nei confronti dell’America, specialmente riguardo al destino dei veterani di guerra e delle persone dimenticate dalla società.

Born in the U.S.A. non è infatti una celebrazione dell’America, ma una riflessione amara sul significato di appartenenza e di patriottismo. In questo periodo di elezioni, può essere molto illuminante.

Una musica travolgente per un testo profondo

Uno degli aspetti più notevoli della discografia di Bruce Springsteen è la capacità che ha il cantante di combinare ritmi travolgenti a testi dal significato profondo e soprattutto vero. Born in the U.S.A. è tutta strutturata sul contrasto tra la musica e il testo. La canzone inizia con un riff di tastiera e una batteria energiche. I più anziani ricordano il Boss cantarla con forza e decisione, con la presenza scenica che tuttora lo contraddistingue. Questa apertura quasi “trionfale” che caratterizza molti suoi brani, ha contribuito a far percepire il brano come un inno positivo, ma il testo racconta una storia diversa.

Sin dalle prime parole, «Born down in a dead man’s town» Bruce Springsteen ci porta in una realtà ben precisa: il protagonista è nato in un “paese morto” perché è pieno di difficoltà e ha scarse opportunità. Una narrazione del tutto antitetica rispetto alla percezione del sogno americano che invece solitamente caratterizza il modo di raccontare l’America in alcune canzoni o film. Riguardo al modo in cui concepisce quel sogno, Bruce Springsteen disse durante un concerto:

All’inizio, l’idea era che vivessimo tutti qui un po’ come una famiglia in cui i forti possono aiutare i deboli, i ricchi possono aiutare i poveri. Sai, il sogno americano. Non credo che questo significhi che tutti avrebbero guadagnato un miliardo di dollari, ma che tutti avrebbero avuto l’opportunità e la possibilità di vivere una vita con un po’ di decenza e dignità.

Lo stesso Bruce Springsteen è spesso erroneamente etichettato come cantore dell’entusiasmo, è vero che le performance del Boss rimandano a una energia e forza vitale tali da trasmettere forte ottimismo, ma tantissime sue canzoni si configurano invece come riflessione sulla disillusione. Nel caso in esame, la disillusione riguarda chi è cresciuto in un paese che sì, promette molto, ma spesso non mantiene le sue promesse.

La disillusione di un veterano

Il cuore del testo disincantato di Born in the U.S.A. è la storia di un veterano del Vietnam che torna a casa e trova un paese che non lo accoglie, non gli riconosce il suo sacrificio. La canzone, come succede per vari altri brani del Boss (un esempio la celeberrima The River), è ispirata a storie che il cantante ha conosciuto, nella fattispecie quella dei suoi amici veterani.

La frase «Got in a little hometown jam, so they put a rifle in my hand» racconta come il protagonista sia stato inviato in guerra non per scelta, ma per necessità, spesso come una via d’uscita, ma quando torna si sente escluso e non amato.

Born in the U.S.A. è quindi una denuncia delle difficoltà che molti veterani hanno dovuto affrontare,. «Come back home to the refinery, hiring man said, ‘Son, if it was up to me‘» racconta il ritorno del protagonista alla vita quotidiana dove si trova senza lavoro e senza più un ruolo.

Un patriottismo deluso

Il ritornello Born in the U.S.A. ripetuto più volte può sembrare, a un ascolto superficiale, una celebrazione patriottica: sono fiero di essere nato qua. Tuttavia, è un grido di rabbia e frustrazione: Bruce Springsteen sottolinea l’appartenenza alla patria, ma denuncia anche di che patria si tratta.

Il ritornello assume così un significato ironico e tragico. È come se il protagonista ricordasse a se stesso e al mondo di essere nato in un paese che avrebbe volentieri amato, ma che avrebbe anche dovuto ricambiare questo amore e invece l’ha abbandonato. La sua appartenenza che ricerca così ferocemente è stata delusa.

Così quando Bruce Springsteen dice «I had a brother at Khe Sanh, fighting off the Viet Cong / They’re still there, he’s all gone» si manifesta in toto come la guerra porti solamente distruzione e vuoto, un messaggio che in questi tempi dovremmo ricordare. «Down in the shadow of the penitentiary, out by the gas fires of the refinery» è la dimostrazione che la speranza e l’opportunità, così spesso associate agli Stati Uniti, spesso corrispondono invece alla solitudine.

La speranza in un cambiamento

Ma quando ci ricordiamo di Bruce Springsteen come di un artista pieno di ottimismo, abbiamo comunque ragione. La canzone non è una vuota e retorica lamentela, bensì una narrazione volta a dare dignità a chi è stato dimenticato, per ricordare soprattutto agli americani, quelli “nati negli USA” che oltre al sogno americano esiste altro.

Sapendo questo, è compito della gente in America cambiare le cose. Lo scopo ultimo della canzone non è chiudersi nella denuncia, ma anche spingere a un cambiamento. Bruce Springsteen riesce a dare voce a coloro che si sentono esclusi e dimenticati, senza chiudersi nella vuota celebrazione, ma nemmeno nell’indignazione statica e fredda.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

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Silvia Argento

Nata ad Agrigento nel 1997, ha conseguito una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Filologia Moderna e Italianistica e una seconda magistrale in Editoria e scrittura con lode. È docente di letteratura italiana e latina, scrittrice e redattrice per vari siti di divulgazione culturale e critica musicale. È autrice di due saggi dal titolo "Dietro lo specchio, Oscar Wilde e l'estetica del quotidiano" e "La fedeltà disattesa" e della raccolta di racconti "Dipinti, brevi storie di fragilità"

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