Girando tra i cinema d’Italia è da sempre possibile, se non inevitabile, inciampare in svariate pellicole immerse nel rilassante tepore della narrazione hollywoodiana; film sociali, film intimi, film confezionati e film venduti. Abbastanza efficaci da permettere una resilienza vicaria dall’effetto pedagogico, ma sufficientemente blandi da confondersi nei ricordi. Tra tutto questo, tra un Green Book e un Bohemian Rhapsody, si può però nascondere qualche piccola operetta d’autore, e ne è un ottimo esempio la seconda prova di regia dello svedese Ali Abbasi, un film sul disagio, la solitudine e l’incertezza di essere nel mondo giusto: Border. Un film che sorprende, che rielabora il folklore nordico e lo pone in dialogo con una modernità senza tempo e struttura, in cui siamo invitati ad un romantico disgusto, esposti al grottesco, immersi nel fango. Il tepore rilassa, il cinema sconvolge, e Border è cinema; moderno, spasmodico, vero.
Avvertenze per l’uso
Se ogni recensione dovesse essere anche una sorta di “guida alla visione”, questa, per correttezza, dovrebbe iniziare con un’avvertenza: leggere una qualsiasi analisi di tale film prima di averlo visto potrebbe leggermente cambiarne l’esperienza di visione. E questo non a causa degli spoiler, come sempre assenti, ma perché, proprio come affermato da Howard Fishman nel suo articolo per il New Yorker, questo è un film in cui vale la pena di inciampare, finirci dentro senza saperne il perché ed uscirne come rigenerati. Perché Border gioca proprio su quel confine di cui si fa omonimo, spostando sempre lo spettatore dove meno se lo aspetti, cadendo e tornando tra il fantasy, il romantico e l’horror, senza però che questo si risolvi in un lezioso post modernismo superficiale. Dunque è la sorpresa la sua carta vincente, e l’ignaro il suo miglior spettatore.
Più di quello da cui si ispira
La sorpresa dicevamo, ma per cosa? Se davvero il tutto si consumasse in una lineare storia di freaks dai toni intimisti sarebbe una visione abbastanza prevedibile e non così entusiasmante, ed infatti Border è ben più particolare e in un certo senso meno limitato nella comunicazione di una normale storia di genere. Il percorso identitario di Tina, particolare ragazza impiegata alla dogana per la sua infallibile capacità di fiutare sostanze stupefacenti e atteggiamenti sospetti, si complica infatti proprio nel legame tra la letteratura folkloristica, la cui ricaduta cinematografica pesca inevitabilmente dal fantasy urbano, e l’esistenzialismo autoriale tipico dei viaggi interiori incentrati sull’impossibilità culturale di sentirsi ed essere diversi. Lo scontro felice di questi due blocchi dona vitalità ad un film che si distingue costantemente dai filoni a cui fa riferimento, mostrando in un primo momento un comparto estetico incentrato sulle particolarità fisiche di Tina, coadiuvate da un trucco strabiliante e dalla profonda e gutturale recitazione di Eva Melander, e da cui prende poi piede una riflessione maggiormente analogica, in cui il concetto di mostro, uomo, troll e creatura si confonde in un lavoro meno fisico e più ampiamente cinematografico. La ricerca sul corpo, sull’essere diversi, che per un attimo sembra addirittura virare in direzione del body horror, si allontana dal particolare e introducendo il personaggio di Vore, troll che rivelerà la presunta identità di Tina, allarga la prospettiva e lascia spazio a campi lunghi e totali; una scala di piani maggiormente universalizzante e capaci di trasmettere la paradossale condizione umana di un troll che non conosce le proprie origini. È qui che Border accelera con piacevoli e mai stucchevoli esagerazioni narrative, riuscendo ad incastonare persino una sotto trama poliziesca e lavorando proprio sul concetto di incrocio e confine.
Improvvisamente l’immagine si fa molto meno chiara, un carrello laterale scorre veloce seguendo due corpi nudi mischiati alla macchia marrone-verde. La natura ritrova il cinema, questo ritrova la mitologia e ad un tratto sembra quasi farsi atto panico e grido moderno. Giunti quasi a metà pellicola ci si trova a chiedersi come sia stato possibile essere stati in sala così tante volte, eppure mai in quello stesso modo. Perché Border è un lavoro multiforme, ineccepibile nel comunicare una superficie sotto cui si estende con altrettanta e forse superiore efficacia un mondo di tematiche universali e mai banali. Si può così osservare con fare distaccato, osservarne la facciata e goderne comunque, come in una visione aerea di una vasta foresta, oppure calarsi sino sotto le folte chiome svedesi e seguendo tronchi bagnati dalla pioggia ritrovarsi in una moderna realtà mitologica, una favola sul corpo, sui sensi, sul sesso, sulla vita e sull’umano. Certo, mai così facile fu perdersi, eppure mai così bello fu farlo.