Nel mese d’ottobre, che duecento anni fa vide nascere nella nebbiosa e contadina Emilia il grande Giuseppe Verdi, va in scena a Bologna il capolavoro che per primo consentì al nostro compositore di porsi all’attenzione del pubblico internazionale. Nabucco, opera già notevolissima, vide la luce dopo anni travagliatissimi per il genio bussetano, colpito dalla morte della moglie Margherita Barezzi e dei figlioletti, e la leggenda (anzi, Verdi stesso) narra che a convincere Giuseppe a musicare il bel libretto di Temistocle Solera fu la lettura casuale del celeberrimo coro del terzo atto “Va’ pensiero”. Ci si può credere o no, ma quando l’opera andò in scena il 9 marzo del 1842, si dovette per forza credere che Verdi era l’astro nascente del melodramma italiano, aspirante ad un trono lasciato libero dalla morte di Bellini, dall’abbandono di Rossini, e destinato ad essere lasciato vacante di lì a poco da Donizetti.
Nabucodonosor (così il titolo originale, subito semplificato e diventato definitivamente Nabucco a partire da una recita a Corfù nel 1844) aveva tutto per colpire il pubblico dell’epoca, e mantiene intatto il suo fascino anche presso quello odierno. L’analogia fra ebrei oppressi dai babilonesi e italiani oppressi dagli austriaci stuzzicò subito le fantasie di spettatori in vena di patriottismo, ma Nabucco non è un’opera davvero pienamente risorgimentale quale può essere considerata ad esempio La Battaglia di Legnano. In essa trovo predominante l’elemento metafisico, così peculiare in tutta la produzione verdiana, espresso, proprio come accade nel Guillaume Tell rossininano con il sentimento panico e popolare, dalla massa del Coro. Il Coro, protagonista di Nabucco al pari del re babilonese e di Abigaille, esprime sì l’anelito di un popolo alla libertà me ne testimonia anche la profonda tensione verso il divino, la radicale appartenenza religiosa, che nel personaggio del sacerdote (capopopolo…) Zaccaria trova un’applicazione pratica, a volte estrema, ma resa indiscutibile dalla giustizia della religione.
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A completare l’affresco si aggiunge il tema del complesso rapporto padre-figli, cardine della drammaturgia verdiana, qui esemplificato dallo scontro fra Nabucco e Abigaille, che si fronteggiano nel primo dei grandi duetti baritono-soprano del compositore. Un’opera di tale complessità non può quindi soffrire un allestimento scenico di scarsa profondità come quello, risalente al 2006 e ripreso oggi, del giapponese Yoshi Oida, privo della minima idea, noiosamente statico. Se Oida riesce a non cadere nell’errore dell’ennesima riproposizione di una interpretazione post-genocidio, non è, ben più gravemente, in grado di sviluppare una lettura che interessi lo spettatore. Non è, addirittura, in grado di muovere masse e cantanti nello spazio scenico, incappando in una fissità quasi oratoriale, dannosissima.
Davvero molto meglio il lato musicale della produzione, che ha goduto di ottimi solisti e di un direttore, Michele Mariotti, per cui non servono ormai da tempo presentazioni. Mariotti è un grande direttore perché gli riesce perfettamente un connubio difficile da realizzare: accompagna i cantanti, come deve essere fatto nell’opera italiana, ma contemporaneamente non tralascia assolutamente nemmeno un particolare della trama orchestrale. Esempio ne sia per questo Nabucco la preghiera di Zaccaria nel secondo atto, con l’elegia sublime dei violoncelli. Ma si dica anche di come si attaccavano le cabalette, con gusto non scontato, con un moto furioso e viscerale. E si dica della conclusione da brividi del “Va’ pensiero”, che svanisce in un sussurro, assorto e sacrale.
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Favoriti da una direzione del genere, i cantanti hanno dato quasi tutti il meglio di sé. Quasi tutti perché a mancare è stato proprio il protagonista, il Nabucco di Vladimir Stoyanov, ispirato nelle parti più liriche come l’aria “Dio di Giuda” o nella parte centrale del duetto con Abigaille, ma privo di piglio quando deve mostrarsi crudele duce o farneticare la propria divinità. Bravissima, invece, Anna Pirozzi nel ruolo di Abigaille, fra i più difficili dell’intero repertorio. La Pirozzi è eccellente negli acuti, che sfodera con una sicurezza non comunemente rintracciabile nel panorama contemporaneo, così come nelle note centrali e gravi, sostenute a fiato pieno e sonore. La costruzione del personaggio è poi efficacissima, e qualche screziatura nelle agilità non pregiudica una prova che definisco di lusso. Di lusso anche la Fenena di Veronica Simeoni, dotata di un timbro ideale per la purezza e la pudicizia del suo personaggio. A far coppia con lei Sergio Escobar, Ismaele, una piacevolissima scoperta: provvisto di un volume potente e di squillo notevole, riesce anche a gestire la voce per variare il fraseggio, regalando una prova pienamente soddisfacente. Bravissimo Dmitry Beloselskiy, uno Zaccaria dalla voce autorevole e ferma, che ricorda nel nobile accento certi bassi dell’est dei tempi andati. Nota di merito allo splendido Coro del Teatro Comunale di Bologna, preparato dal Maestro Andrea Faidutti. Al termine della recita grande calore per tutti, con punte incandescenti, meritatissime, per Michele Mariotti.
Michele Donati
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