«Piuttosto una cospirazione. Erano come i nastri del Watergate. Di molta di quella roba Bob disse: “Dovremmo distruggerli”».[1] Con queste parole Robbie Robertson, chitarrista di The Band, rispose al giornalista Greil Marcus che gli propose la definizione di “laboratorio” per descrivere quello che è, ed è stato per decenni, uno dei capitoli più curiosi e controversi della produzione di Bob Dylan. La sintesi di Robertson è perfetta: racconta il clima delle registrazioni e contiene molti dei temi che consegnano le registrazioni dei Basement Tapes alla posterità.
Quella dei Basement Tapes è una chicca da intenditori. I nastri da “scantinato”, basement appunto, non appartengono alla produzione più nota di Bob Dylan, quella che ancora passa – a ragione – nelle radio, nei film, nelle serie TV. Eppure, se oggi è una consuetudine per moltissimi musicisti quella di attrezzare una stanza della propria casa a studio di registrazione, l’ispirazione proviene anche da queste sessioni private che Dylan e The Band organizzarono a Woodstock, lontano dagli studi delle major discografiche e dagli ingegneri del suono in camice bianco.
«Basement Tapes» di Bob Dylan, prima del disco
L’esperienza dei basement inizia nell’estate del 1967: Bob Dylan, 26 anni, è all’apice della sua creatività, testimoniata dalla trilogia Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, che escono nel cuore degli anni Sessanta. Allo stesso tempo è reduce dal cambio di rotta più significativo della sua carriera artistica: l’esibizione al Newport Folk Festival del 1965 e la messa a nudo della svolta elettrica che lo allontana dal suo pubblico di riferimento. E ancora, il nuovo look, l’atteggiamento distaccato e surreale nei confronti della stampa, e poi l’incidente del 1966 a bordo della sua Triumph, un episodio che ancora oggi ha un alone di mistero tutto suo.
È l’incidente e il conseguente momentaneo stop dalla scena pubblica che permette a Dylan di registrare, insieme a musicisti già assoldati per il tour, la maggior parte delle tracce che comporranno The Basement Tapes, l’album voluto dalla Colombia Records nel 1975, che contiene 24 tracce registrate a partire dall’estate del ‘67. La gran parte di queste registrazioni avviene letteralmente in cantina: il luogo appartato per eccellenza, lontano dai riflettori, dagli sguardi indiscreti, che assume l’inedita veste di studio di registrazione.
Le cantine, in realtà, sono più d’una. Come ben racconta la ricostruzione cronologica di Sid Griffin[2], il luogo cambiava man mano che i padroni di casa (o le loro compagne, più probabilmente) si stancavano di dover quotidianamente ospitare quel “mucchio di casinari da seminterrato” (you bunch of basement noise, come Dylan apostrofa la band in una delle versioni di You Ain’t Goin’ Nowhere). Sono gli anni del garage rock, quando inizia a svilupparsi la consapevolezza dell’importanza di appropriarsi direttamente degli strumenti elettrici e tecnologici come mediazione espressiva, essenziale per amplificare e approfondire la propria visione artistica. Tante cantine, eppure lo scantinato più celebre resta quello della casa degli Hawks (i futuri The Band, ndr), a West Saugerties, New York, appena fuori Woodstock. La casa, più nota come “Big Pink“, è ancora oggi meta dei fedelissimi di Dylan.
La segretezza
Il “segreto pubblico” delle registrazioni nella cantina di Woodstock alimenta fin dai tardi anni Sessanta la loro fama: il pubblico sa che esistono queste registrazioni ma non sono pubblicamente accessibili. Ma non per questo i Basement Tapes di Bob Dylan risultano meno significativi a livello storico: nel 1969 The Great White Wonder di Dylan (mentre trapela in circolazione qualche frammento dei Basement Tapes), è l’album illegale che fa nascere il genere discografico del bootleg. Lo stesso Dylan, qualche anno dopo, inizierà a usare in modo autoironico (e molto redditizio) questo genere di definizione per una retrospettiva (ufficiale) di materiali inediti, intitolata proprio The Bootleg Series. A proposito di segreti, si trova in queste registrazioni I’m Not There, una delle canzoni più ermetiche e espressioniste dell’intera produzione dylaniana, a proposito della quale Alessandro Carrera ha scritto: «i significati in apparente disgiunzione comunicano tra loro come isole che si toccano sotto il mare».[3] Mai ripresa su disco o dal vivo, I’m Not There sarà il talismano che favorirà l’incontro della coppia di “dylanisti” – Sally e Ben – del romanzo di Brian Morton, oltre a diventare il titolo dell’enigmatico film “non biografico” di Todd Haynes per la cui colonna sonora i Sonic Youth reinterpreteranno il brano, aggiungendo la distorsione della band alla qualità lo-fi dell’originale.
4 ragioni per (ri)ascoltare i «Basement Tapes» oggi
Perché raccontare la storia dei Basement Tapes oggi? Le ragioni sono diverse: la prima è un anniversario. Proprio oggi, 24 maggio 2021, cade il compleanno di Bob Dylan, nato Robert Allen Zimmerman. Una cifra piena, di quelle degne di essere celebrate: 80 anni, di cui molti spesi nel mondo della musica e della parola, durante i quali ha scritto grandi classici della musica leggera contemporanea, da Like a Rolling Stones, a Blow in the Wind, da Mr. Tambourine Man ad I Want You. La seconda è che esiste una produzione di Dylan ancora da indagare: i Basement Tapes, in questo caso, che trapiantano le molte radici stilistiche della musica americana (circa la metà dei brani registrati “in cantina” sono, infatti, cover di brani di repertorio) in quel contesto più ampio che – proprio in quegli anni – iniziava a chiamarsi rock. La terza è recuperare la dimensione laboratoriale (o, se si preferisce, cospirativa) dalla quale siamo partiti in questo pezzo: da qui nascerà un ennesimo “nuovo” Dylan e si cementerà l’esperienza di The Band, proprio a partire dalla sintesi di generi, influenze, sperimentazioni portate avanti nei mesi testimoniati da queste registrazioni. Inoltre, rimane la curiosità – perlomeno nelle pubblicazioni più complete di queste registrazioni – di ascoltare alcune canzoni in diverse versioni, alternate take che testimoniano il lavorio del gruppo in sala prove e le diverse soluzioni sperimentate dai musicisti. Anche questo, è entrare, per brevi scorci rubati, nella “bottega” della scrittura di canzoni.
Basement Tapes di Bob Dylan: 7 tracce che non possiamo perderci
Per celebrare il compositore di Duluth, Minnesota che ha cambiato le sorti della popular music come pochi altri resta solo un’ultima chicca: una nostra selezione personale di canzoni e versi dalle più di cento registrazioni “in cantina”…
- Apple Suckling Tree – Take #1 – Chi è sul tavolo? Chi me lo dice? / Ma a chi, a chi dovrei dirlo io?
- Kickin’ My Dog Around – Tutte le volte che vado in città/ I ragazzi portano in giro a calci il mio cane
- All You Have To Do Is Dream – Take #1 – Il contadino non ha un silos / Ed è proprio così che ti amerei se solo mi lasciassi provare
- You Ain’t Goin’ Nowhere – Comprami un flauto / e una pistola che spari
- Sign on the Cross – Se quel segno sulla croce comincia preoccuparti non ti crucciare / Canta una canzone e tutto passerà
- Long Distance Operator – Se una chiamata viene dalla Louisiana / Ti prego, lascia stare
- I’m Not There – Se n’è andata come l’arcobaleno che splendeva ieri / Vorrei esserle accanto ma non ci sono, me ne sono andato
Di Alessandro Bratus* e Agnese Zappalà
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In apertura uno scatto di mosaico.cem.it
[1] Greil Marcus, Quella strana vecchia America. I Basement Tapes di Bob Dylan e la metamorfosi culturale del Grande Paese, Roma, Arcana, 2002, pp. 10-11.
[2]Sid Griffin, Million Dollar Bash. Bob Dylan, The Band and The Basement Tapes, London, Jawbone, 2007.
[3]Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 93.