Il senso di una recensione cinematografica è di incarnare e legittimare un’opinione. Spesso la ripetitività indirizza il corpus dello scritto ad una qualche petizione di principio fino a farlo cadere nel circolo vizioso dell’opinare tautologico – cioè il presupporre ciò che si ricerca.
Per effetto, chi scrive una recensione mostra indicando un’opinione, che è un modo di esplicitare in una forma precisa (unitaria) l’intorno–a–che del film. Detto altrimenti, l’opinione è l’onnipresenza del discorso di ogni recensione anche nel caso in questione di Big Fish di Tim Burton.
Ora poiché in gran parte di noi c’è la tendenza a deporre il prodotto dell’industria cinematografica nel rango di opera d’arte ; l’atteggiamento da assumere è quello del “fruitore” ovvero quello della stratificazione della ricezione. Le intuizioni possibili riguardo uno stesso oggetto sono in–finite. Letteralmente deducibili solo e sempre negativamente: ogni intuizione che emerge è una sottrazione dall’infinità delle intuizioni possibili (Ansicht). E per dirla con Baruch Spinoza «l’infinito è l’unica quantità che non diminuisce quando subisce una sottrazione».
Si capisce che abbiamo davanti a noi due questioni da precisare prima di addentrarci nel “contenuto” del film o di Big Fish in questo caso.
- La prima ha a che fare con il fatto che, in virtù di questa infinità di intuizioni, la possibilità di ricercare una verità oggettiva è esclusa. Sappiamo infatti che c’è sempre un Altro che potrebbe emergere per la prima volta ogni volta . E che quindi risulta come un’eccedenza dell’ignoto (principium individuationis di ogni gnoseologia e sua condizione di possibilità)
- Il secondo punto ha a che fare con la vexata quaestio della relazione tra sostanza (ciò che è così com’è) e accidente (ciò che è così com’è, ma che potrebbe essere altrimenti).
Questi problemi non possono (purtroppo) essere esplicitati in questa sede. Tuttavia queste due situazioni le ritroviamo direttamente nel contenuto di Big Fish di Tim Burton (2003).
Big Fish: racconto dei racconti
Questo film, a sua volta tratto da un romanzo, non rappresenta una semplice storia, né un racconto o una favola psicologica. Il film sarà quindi qui ridotto a opera d’arte e come opera d’arte sarà considerato, cercando di rispettare lo status ontologico che questo film evoca senza sosta, solo entro i limiti della comprensibilità di chi lo abbia già visto (possibilmente almeno due volte). Per le ragioni suddette le seguenti considerazioni non mirano ad abbracciare l’oggetto nella sua totalità, ma a tracciarne una via di accesso esplicativa particolare.
E ora entriamo in argomento: il sottotitolo o secondo titolo, quello che sarebbe giusto chiamare “titolatura didascalica” di questo film suona: «le storie di una vita incredibile». Ciò che vuol dire è semplice: la vita che è raccontata nel film è un racconto di racconti. La trama è l’ordito: il contenuto (la vita) che si esplicita (raccontata) nella forma di un film (opera d’arte) è una narrazione di storie (racconto di racconti) che riguardano proprio l’articolarsi della vita stessa. Nel sottotitolo non si nomina in nessun modo la vita di un individuo. Questa è la parte più ostica: facilmente si può pensare che Edward Bloom sia, come si è soliti dire, il protagonista. Certo, lui racconta le storie che hanno segnato le fasi della sua esistenza. Le storie della sua vita incredibile.
Tuttavia non si può, proprio per la natura della cosa, parlare di protagonisti o personaggi. Ciò che conta, come stiamo per vedere chiaramente, è sempre e solo la storia, cioè lo sviluppo della natura narratologica dell’Altro, così come si riferisce all’esistenza stessa di tutti e di ciascuno.
A questo punto possiamo riformulare il sottotitolo: esso suona: «storie di una vita incredibile». Come lo sentiamo adesso? Potremmo forse esprimerne così il significato: rappresentazioni di una vita incredibile? Se così fosse il significato sarebbe: questo film che state per guardare mette in scena delle rappresentazioni valide sempre atte a designare ciò che sempre dovrà essere considerato una “vita incredibile”. Si tratterebbe di una propedeutica ad una vita incredibile. Che cosa significa “incredibile” possiamo dirlo solo a posteriori, quindi non ancora.
Cos’è cambiato? In fin dei conti questa vita “rappresentata” è pur sempre la vita di questo individuo particolare, le storie anche quando non sono immediatamente raccontate da Edward Bloom, si riferiscono solo e sempre a Edward Bloom. Per uscire da quella che parrebbe una boria insolubile basta rispondere alla domanda: «chi è Edward Bloom?». La risposta giusta è: un nome. Ovvero un soggetto vuoto cioè “ognuno di noi”. Spiegare così E.B. significa ridurlo alla figura (via di accesso) della mimèsis. L’empatia tuttavia non gioca alcun ruolo quando il protagonista non ha una necessaria ragion d’essere. L’imitazione è sempre neutralizzata quando riguarda la vita. Banalmente: il protagonista del film è «la vita incredibile di S espressa in storie».
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LA SCENA DEL CAMPO DI DAFFODILS (cfr. “I Wandered Lonely as a Cloud” William Wordsworth 1804)
Alla luce di quello che è stato detto come possiamo interpretare ciò che accade in questa sequenza? Per farlo correttamente dobbiamo immergerci nell’evento che costituisce la scena. Ciò che accade ha grande rilievo per entrambe le prospettive (mondi, regioni ontologiche, spazi psichici, o come si vuole chiamarli).
Per la sezione mitica e narratologica dell’esistenza questa vicenda è la risposta al dilemma della relazione atipica substantia – accidens, risolto nella Serendipity [1*]. Rispetto alla vita reale, ciò che accade nella vita di Edward Bloom è l’evento rivoluzionario: il suo matrimonio. A questo proposito per scongiurare ogni spontanea riduzione al banale, si tenga presente la scena iniziale del fiume e del pesce che è anche la scena finale e che simboleggia evidentemente il nuotare nel fiume (divenire) della vita. Il passaggio di padre in figlio è all’insegna del lasciar essere libero.
E.B. (S) dopo tre anni di duro lavoro con una compagnia circense finalmente viene a sapere il nome della ragazza per la quale il suo senso interno del tempo aveva subito un corto circuito la prima volta che la vide durante uno spettacolo del circo in cui lavorava.
E.B. (S) “sa” a priori che Lei è la donna della sua vita. Detto altrimenti: ciò ci appare una follia e E.B. un folle, un uomo irrazionale et similia; principalmente perché si mette in ascolto unicamente del suo giudizio riflettente [2*], riconoscendolo per così dire “sentendolo” come fondativo di ogni determinazione concettuale: ciò che dovrebbe essere l’inverso.
Quindi se si cerca di guardare attraverso riconosciamo subito ciò che traspare (hervorleuchten) dalla visione che consegue questa catastrofe percettiva (l’inversione paradossale della conoscenza).
E.B. (S) ama incondizionatamente. Ma ancora non abbiamo detto niente di più dell’evidenza.
Ciò che rimane più celato agli occhi della ragione, riveste il centro pulsionale del sentimento: in questo modo la logica deve sconfinare e assumere un principio che le è estraneo ma che ha un rango supremo. Questo principio incondizionato libero (capacità di dipendere non…) ma d’altro canto poiché si sta parlando di una relazione a dir poco potentissima, l’interazione che ne consegue condiziona il costituirsi degli eventi determinando direttamente le pieghe che la realtà prende in concreto: ciò che è necessario passa attraverso il contingente.
Il poter-essere di E.B. (S) si realizza in un intervento nella realtà effettiva avente il carattere della contemplazione (Θεωρία – passività partecipata), ma allo stesso tempo interviene in guisa determinante sulla vita stessa, ben di più di qualsivoglia speculazione logica.
Tale realizzazione si può e si deve giustamente chiamare «capacità di fare non…». In quanto è la facoltà di produrre azioni passivamente. Detto positivamente: assunto che le ambiguità di vero-falso, quiete-moto, identità-differenza eccetera siano proprie di ogni singolo accadimento; il prezzo che si paga se si sceglie il vero è la quiete (passività sentita), se si sceglie il falso, il premio è il movimento (essere realizzantesi) .
In fondo è per questo motivo che il vero tende a celarsi nell’essere e ad esser ri-compreso nel pensiero.
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[1*] Resta intraducibile, e deve essere inteso come un certo modo particolare di consapevolezza. Quanto al contenuto se si vuole saper dire cosa essa è (was ist das?) va concepita come un momento eternizzato in cui la vita ordinaria diviene secondaria alla vita straordinaria: il momento in cui si capisce che “ciò che è così com’è”, sebbene non poteva essere altrimenti, è del tutto contingente (accidentale)
[2*] giudizio riflettente qui va inteso come un giudizio a priori che si riconosce in quanto a priori solo e sempre nell’effetto e che concerne il piacere o il dispiacere del soggetto ovvero il sentimento: ciò che di solito è inferiore al necessario, in quanto contingente.
di Lorenzo Pampanini
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[…] lontano dalla malinconica dolcezza di Edward Mani di Forbice o dalle atmosfere allucinate di Big Fish. Ma è un buon motivo per considerarlo un errore di percorso del grande […]