Quando un regista si allontana da quello che è stato lo stile che lo ha definito per anni, le reazioni dei fan non sono mai del tutto positive. Se quel regista è Tim Burton, poi, vedremo i fan marciare nelle piazze lanciando slogan di protesta. Big Eyes (2014) è decisamente il film meno “burtiano”, lontano dalla malinconica dolcezza di Edward Mani di Forbice o dalle atmosfere allucinate di Big Fish. Ma è un buon motivo per considerarlo un errore di percorso del grande regista?
Con Big Eyes Tim Burton si avventura nuovamente nel genere biopic – la prima volta era stata con Ed Wood (1994) – e sceglie un’artista a cui è particolarmente legato: Margaret Keane, la pittrice dei bambini dai grandi occhi. Gli occhi sono le porte attraverso cui si leggono i sentimenti, dice l’artista; e, ripensando agli enormi occhi di Sally in The Nightmare Before Christmas o di Victor in La sposa Cadavere, non è difficile capire perché Burton senta affinità con Margaret Keane. Ma la sua storia è anche drammatica, come solo la realtà può essere, e merita un racconto fedele.
«Big Eyes» trama
1958, Margaret Ulbrich (Amy Adams) fugge dal soffocante marito insieme alla figlia Jane e si trasferisce a San Francisco, dove spera di poter raggiungere il successo grazie al suo talento di pittrice. Presto, forse troppo, conosce Walter Keane (Cristoph Waltz), artista spiantato ma con un grande charme; lo sposa, soprattutto per evitare grane con l’ex-marito, che minaccia di portarle via la bambina. I primi anni di matrimonio sono felici: i due, poveri ma ottimisti, sperano di riuscire a sfondare grazie alla loro arte. Mentre Margaret continua a dipingere i suoi bambini dai grandi occhi, Walter va in cerca di una galleria disposta a esporre i quadri. Margaret (ora) Keane inizia ingenuamente a firmare i quadri con il nome del marito, che ora è anche il suo, ma questo errore le costerà caro.
Margaret Ulbrich/Keane
I dipinti di Margaret iniziano ad essere apprezzati dall’alta società di San Francisco ma, a causa di un malinteso, tutti pensano che il vero autore sia Walter. L’uomo, dapprima in buona fede, poi per avidità di gloria, non si preoccupa di correggere l’errore. Ben presto attorno ai “trovatelli” di Walter Keane si crea un ampio giro di denaro.
Margaret è intrappolata dietro le quinte e non sa come uscirne: Walter l’ha convinta che i quadri che portano il nome di una donna non vendono nulla e, d’altra parte, essendo complice del marito in quella che è a tutti gli effetti una frode, anche lei rischierebbe molto. Ma separarsi dal prodotto della sua arte e non vedere riconosciuti i propri meriti la consuma sempre di più. Per dieci anni Margaret Keane tace, ma infine trova il coraggio di ribellarsi a un marito che, oltre che oppressivo, è diventato anche violento.
L’evoluzione dei sentimenti di Margaret, sempre più insofferente e ossessionata dai suoi “grandi occhi”, è scandita molto bene, ad un ritmo tranquillo ma mai noioso. In confronto a questo, il finale è forse un po’ troppo precipitoso: Margaret, trasferitasi alle Hawaii, dapprima è disposta a rimanere in silenzio pur di tenere Walter fuori dalla propria vita, ma capisce ben presto che ciò di cui ha bisogno è essere veramente libera. Molto sottile è il ruolo riservato alla religione: a san Francisco un prete a cui la donna si era rivolta in cerca di conforto le aveva suggerito di seguire i dettami della dottrina cattolica, secondo cui la moglie deve obbedire all’uomo, vero capo della famiglia. Nel piccolo paradiso hawaiiano, però, è proprio la religione a dare a Margaret la forza di ribellarsi e denunciare la frode del marito. L’artista è oggi una Testimone di Geova molto attiva nella comunità.
«Big Eyes» tra realtà e finzione
La storia raccontata in Big Eyes aderisce alla realtà dei fatti: Margaret Keane stessa si è detta sconvolta da quanto il film rispecchiasse quella che era stata la sua vita in quei dieci anni. Amy Adams dà vita a una donna malinconica e insicura, perfino quando, ormai lontana dal marito, vede una concreta possibilità di riscatto. Ma potrebbe essere altrimenti?
Una delle tematiche principali di Big Eyes, quanto mai attuale, è proprio la violenza, psicologica più che fisica, a cui le donne erano sottoposte negli anni ’60; violenza che la società non solo guardava con indifferenza, ma percepiva anche come naturale. È la violenza a cui Walter Keane, un uomo all’apparenza piacione, una macchietta che Cristoph Waltz riesce a rendere perfino simpatica allo spettatore, sottopone la moglie, dicendole che lei non potrà mai essere nulla senza di lui.
L’arte in «Big Eyes»
Ma il tema portante di Big Eyes, naturalmente, è l’arte, che è ispirazione ma (purtroppo o per fortuna?) anche marketing. Margaret e Walter rappresentano le due facce della medaglia e, non per nulla, sono i protagonisti assoluti del film, dove gli altri personaggi sono soprattutto di contorno.
Walter, dipinto con tratti quasi mefistofelici, non è in grado di spiegare il sentimento che si cela dietro i grandi occhi, ma è un perfetto e geniale uomo d’affari, completamente a suo agio nella società consumista che si sta formando negli USA.
Margaret, al contrario, non è in grado di dare un valore economico ai “suoi bambini” ed è costretta a fuggire da quella realtà. Big Eyes non è certamente un film che denuncia i mali del capitalismo, ma offre qualche interessante spunto di riflessione.
La storia con gli occhi di Tim Burton
Ma davvero il film è stato girato da Burton? Dov’è il suo tipico tocco? C’è, anche se leggero. Nella musica e negli accurati costumi d’epoca, realizzati dai membri del suo affezionatissimo staff Danny Elfman e Coleen Atwood; nelle perfette villette a schiera che compaiono all’inizio del film e che ricordano incredibilmente l’artefatto quartiere di Edward Mani di Forbice. Il suo tocco c’è nelle oniriche visioni di Margaret, che in preda ai sensi di colpa vede ovunque i grandi occhi; nei colori sgargianti a cui ci hanno abituato film come La Fabbrica di Cioccolato e Alice in Wonderland. Un insieme di particolari, insomma, che rendono Big Eyes un film diverso dagli altri, ma non del tutto privo del particolare stile di Tim Burton.
[jigoshop_category slug=”cartaceo” per_page=”8″ columns=”4″ pagination=”yes”]
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook, Instagram e Spotify, e iscriviti alla nostra Newsletter
Sì, lo sappiamo. Te lo chiedono già tutti. Però è vero: anche se tu lo leggi gratis, fare un giornale online ha dei costi. Frammenti Rivista è edita da una piccola associazione culturale no profit, Il fascino degli intellettuali. Non abbiamo grandi editori alle spalle. Non abbiamo pubblicità. Per questo te lo chiediamo: se ti piace quello che facciamo, puoi iscriverti al FR Club o sostenerci con una donazione. Libera, a tua scelta. Anche solo 1 euro per noi è molto importante, per poter continuare a essere indipendenti, con la sola forza dei nostri lettori alle spalle.