I big data sono saliti alla ribalta nei primi mesi del 2018, quando un ex dipendente di Cambridge Analytica, Christopher Wylie, ha ammesso sulle pagine del Guardian che l’azienda era in possesso dei dati di 50 milioni di profili Facebook, senza il consenso degli utenti (qui l’articolo). In contemporanea il New York Times rivelava come questi dati fossero stati usati a fini di propaganda politica, per favorire l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca (qui l’articolo).
Sono passati due anni e lo sfruttamento dei big data è ancora all’ordine del giorno, il data mining una pratica scontata e il silenzio circa l’utilizzo dei dati personali da parte di governi e grandi aziende assordante. C’è però una novità: l’emergenza Coronavirus ha portato molti governi a decidersi sull’utilizzo dei big data, nella fattispecie a usare l’ingente mole di dati dei propri cittadini per monitorare la situazione, controllare il rispetto delle regole, favorire la convivenza col virus una volta aperta la fase 2 e, ovviamente, per sorvegliare e punire.
Big data: come sono utilizzati dai governi?
È noto che in Corea del Sud è stato applicato un modello di controllo basato sul tracciamento degli individui: tramite un’app si avvertono i cittadini degli spostamenti dei malati, di modo da individuare se si è entrati in contatto con essi. Il Ministero della Salute sudcoreano ha messo in rete i dati, oscurando l’identità delle persone, ma c’è chi si sta preoccupando che un tale metodo leda la privacy: si fa notare infatti come sia facile per chi conosca la routine di una persona risalire tramite gli spostamenti all’identità del malato.
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Gli altri paesi come stanno utilizzando i big data per arginare il contagio? Il manifesto (la cui versione online è tra l’altro divenuta gratuita per tutto il periodo di emergenza sanitaria, dunque non avete scuse) ha pubblicato venerdì 10 aprile un interessante speciale, che vi consigliamo caldamente di leggere (qui l’articolo d’introduzione), dove si spiega approfonditamente cosa stia accadendo su questo tema in vari paesi. In questa parte riprendiamo lo spunto e riportiamo qualche esempio.
In Israele si monitorano i malati come si monitoravano i palestinesi
A metà marzo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato, senza sottoporre la decisione alla Knesset, di voler consentire al servizio di sicurezza interno, lo Shin Bet, il monitoraggio dei proprietari di smartphone, di modo da poter ricostruire i movimenti di coloro a cui viene diagnosticato il virus, con chi sono venuti in contatto, se le persone rispettino la quarantena e l’autoisolamento. Questo sistema permette al Ministero della Salute di avvisare una persona che ha avuto contatti con un positivo e metterla in quarantena o convocarla per il test del tampone.
A seguito delle proteste, Netanyahu ha istituito una commissione ministeriale il cui compito è di controllare l’operato dello Shin Bet, che avrebbe accesso a un’enorme banca dati contenente tutte le comunicazioni elettroniche effettuate in Israele. Scrive Michele Giorgio su il manifesto:
Nota come «Lo Strumento», la banca dati include anche le telefonate e l’utilizzo del web nel Paese. I server e le compagnie di telefonia mobile devono, per legge, condividere i registri sulla durata delle chiamate, le loro posizioni e l’uso di internet. Pare che lo Shin Bet non riceva informazioni su ciò di cui la gente parla ma ottiene i dati su dove si trovava, chi ha chiamato e per quanto tempo. Sa inoltre quali siti si visitano e per quanto tempo ma non il contenuto che si sceglie.
La Russia è la Russia
Con l’annuncio del lockdown, Mosca è diventata terreno di prova per nuovi modelli di controllo sociale. Il sindaco Sergey Sobyanin ha obbligato le persone presenti a Mosca a registrarsi presso il sito del comune, fornendo dati anagrafici, codice fiscale, numero di cellulare e domicilio di residenza. Scrive Yuri Colombo su il manifesto:
Quest’ultimo risulta il dato più interessante dal punto di vista del controllo (visto che non si può imporre alla popolazione di spostarsi dai luoghi di residenza ufficiale) perché va a determinare non sono solo l’area territoriale in cui la persona che si registra possa muoversi, ma soprattutto dove possa essere rintracciata in ogni momento.
La registrazione al sito permette di scaricare un’app che fornisce ai residenti dei codici QR usa e getta, i quali permettono alle autorità di visionare tramite scanner i motivi degli spostamenti. Ma non basta: a quest’app se ne aggiunge un’altra, la quale fornisce assistenza sanitaria. Appena scaricata, chiede all’utente l’autorizzazione per accedere al servizio di geolocalizzazione, agli SMS e alla fotocamera. Il suo utilizzo è vincolato dalla condivisione con l’app da parte dell’utente del numero di telefono e dei dati personali.
A Mosca si risponde all’emergenza con un ibrido fra vecchi metodi biopolitici, quali videosorveglianza e monitoraggio degli spostamenti, con le più fluide tecniche di autocontrollo o di controllo benevolo.
Il Canada e le leggi sulla privacy
Scrive Daniela Sanzone su il manifesto:
L’istituto di ricerca Mila, a Montreal, in Québec, la provincia più colpita del Canada, ha creato un’app per gli smartphone. Valérie Pisano, Presidente del Consiglio di Amministrazione del Mila, ha spiegato che al momento si ritiene debbano essere i singoli individui a poter decidere se scaricare l’applicazione e condividere i dati relativi alla propria posizione. L’app dovrebbe essere completata a breve, con il sostegno del governo del Québec e quello federale. “A questo punto si tratta di salvare vite umane – ha dichiarato invece Park – e la gente deve capire che rinunciare alla libertà individuale e ad alcuni dati personali in tempo di crisi potrebbe salvare molte persone”.
Il Canada possiede una legislazione specifica riguardo alla limitazione delle libertà personali in tempo di emergenza sanitaria, la quale permette la riduzione della privacy a fini di salute pubblica. Le leggi sulla privacy rimangono tuttavia in vigore, ma tale legislazione permette uno spazio di manovra chiaro e democraticamente controllato.
Frattanto Google ha diffuso, in forma anonima, i dati raccolti da Google Maps, mostrando gli spostamenti dei canadesi, i luoghi più frequentati e dove si affollano diverse persone nel medesimo momento.
E l’Italia?
La minstra per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano ha annunciato l’8 aprile, davanti alla Commissione Trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera, un’app per il tracciamento degli infetti di Covid-19. Non si sa chi sarà il produttore, né quale sarà l’ente pubblico che gestirà i big data. Quale sia il gestore pubblico è una nota alquanto delicata, che ne va della democratica riuscita del progetto, ma su ciò la ministra dice solo che «verranno raccolti da un soggetto pubblico competente» (ci mancherebbe!).
L’applicazione è però descritta con precisione dalla ministra: essa non avrà «l’obbiettivo di geolocalizzazione» bensì quello «di tracciamento/memorizzazione per un determinato periodo di tempo degli identificativi dei cellulari con il quale il nostro è venuto in contatto ravvicinato»; come riporta La Stampa,
L’applicazione crea un registro dei contatti in cui ci sono tre informazioni: 1) qual è il dispositivo con il quale sono stato in contatto, 2) a che distanza, 3) per quanto tempo. Nel caso in cui un cittadino fosse identificato come positivo, l’operatore medico autorizzato dal cittadino positivo, attraverso l’identificativo anonimo dello stesso, fa inviare un messaggio di alert per informare tutti quegli utenti identificati in modo anonimo che sono entrati in contatto con un cittadino positivo. I quali quindi dovranno monitorare il loro stato di salute e verosimilmente sottoporsi a un periodo di autoisolamento di due settimane.
In ogni caso c’è da rilevare che la presenza nel governo di un partito, anzi, no, perdon, di un movimento la cui piattaforma è stata pluri-multata dal Garante della privacy non fa ben sperare circa la salvaguardia dei nostri dati. Ma adesso parliamo delle cose interessanti.
Dataismo: una nuova costituzione del sé con i big data
Negli Stati Uniti esiste una comunità di persone chiamate Quantified-self, le quali praticano lifelogging, ossia automonitorano costantemente la propria salute psicofisica tramite computer e sensori integrati nell’abbigliamento che rilevano battiti cardiaci, tasso glicemico, pressione sanguigna, percentuale di grasso nel corpo, assunzione e consumo di calorie. Il loro motto è «self-knowledge through numbers» e il loro fine è il miglioramento del sé, delle performance psichiche e fisiche, della gestione delle espressioni emotive. Quando si ritrovano insieme condividono i loro dati, li analizzano e discutono su come auto-ottimizzarsi. Il loro metodo di riconoscimento non passa attraverso l’altro, ma è filtrato da un apparato di produzione e analisi dei big data. In questo senso il riconoscimento non emerge dall’interazione fra pari, ma è successivo all’interpretazione non cosciente di una macchina, è l’emergenza di operazioni a priori, di calcoli che non riguardano la vitalità del sé, ma piuttosto i suoi parametri vitali. In questo senso è il riconoscimento del sé come cosa, la certificazione della propria mera fattualità, la costituzione del sé come simbionte natural-tecnologico, che integra nell’ermeneutica del soggetto una mole irriflessa di dati, i quali dovrebbero fornire la base reale sulla quale migliorarsi. Tralasciando l’ideologia sottesa dell’uomo come imprenditore di sé stesso, il problema fondamentale sembra essere il postulato dell’uomo come accolta di dati, come cosa innanzitutto quantificabile. I quantified-self rendono un’accolta di unità informative il proprio corpo, smaterializzano la struttura biologica del proprio sé: il loro corpo è ancora il loro corpo? Non è piuttosto un corpo generico, semplicemente presente? Una relazione contingente di parti analizzabile, unità informatiche innanzitutto utilizzabili, un pacchetto di dati?
Il quantified-self è la forma estrema, l’asintoto patologico del più ampio fenomeno detto dataismo. Il dataismo è la fede circa l’assoluta veridicità dei big data, il postulato che tutto sia quantificabile e analizzabile. Nel 2013 sul New York Times, David Brooks scriveva:
If you asked me to describe the rising philosophy of the day, I’d say it is data-ism. We now have the ability to gather huge amounts of data. This ability seems to carry with it certain cultural assumptions — that everything that can be measured should be measured; that data is a transparent and reliable lens that allows us to filter out emotionalism and ideology; that data will help us do remarkable things — like foretell the future.
[Se mi chiedeste di descrivere la filosofia oggi in ascesa, risponderei che è il dataismo. Oggi abbiamo l’abilità di raccogliere un ingente numero di dati. Questa abilità sembra portare con sé un certo carico di assunzioni culturali -che tutto possa essere misurabile, che debba essere misurato; che i dati siano trasparenti e siano lenti affidabili che ci permettono di filtrare i pregiudizi emotivi e l’ideologia; che i dati ci aiuteranno a realizzare cose straordinarie, come predire il futuro.]
«Il carico di assunzioni culturali» è ciò che ci interessa. La considerazione del dato come trasparente e affidabile messaggero della cosa introduce un mutamento dello statuto conoscitivo, e per riflesso reale, della cosa dataizzata, per cui l’essenza appare conoscibile attraverso l’informazione, composta essa stessa da particelle informative. Vi è un ribaltamento gnoseologico: la cosa non è più ciò che mi sta davanti, l’oggetto sensibile, ma un gruppo relato di unità informative che sono l’affidabile messaggero dell’essenza della cosa, donde la sensibilità della cosa decade a mero fenomeno fallace. L’oggetto non è più ciò che mi sta davanti, piuttosto ciò che mi sta davanti è il luogo dove si nasconde l’informazione, l’unica risorsa per conoscere la cosa. Ma il dato non è qualcosa che un oggetto possiede a priori, piuttosto è il prodotto di un processo di formazione e informazione, che riscrive la cosa sotto certi parametri interpretativi. In questo senso non può essere «reliable» se «reliable» non sono i presupposti operativi e la metodologia adottata. Non solo, ma bisogna giustificare che in qualche modo l’operazione decifri davvero la cosa in quanto tale, e non piuttosto crei un simulacro totalmente altro dalla cosa, la cui validità è solo apprezzabile pragmaticamente, per gli effetti. Ma qui si dovrebbe aprire una lunga parentesi epistemologica.
Calata sull’umano il dataismo rende il soggetto oggettivato e oggettivabile, non più soggetto della comunicazione, ma oggetto comunicato; la sua psiche, i suoi comportamenti, il suo corpo diventano l’epifenomeno totale di unità informative precedenti e veritiere, messaggeri della vera struttura dell’individuo, non rinvenibile nel suo quotidiano essere nel mondo ma piuttosto nelle parti analizzabili da cui si ritiene formato e che esperti di marketing e data mining si occupano di analizzare. Si assiste a una reificazione, ossia a un farsi cosa dell’inoggettivabile essenza umana. Si trasforma l’inesatta vita di un corpo nell’inerte prodotto di una funzione. Se le tecniche di reificazione dell’uomo sono massimamente utili nella medicina e nella biologia, praticate come gestione socio-individuale diventano oscure ortopedie del sé, meccanismi di individuazione, dispositivi di controllo. Il dataismo è «the rising philosophy of the day» perché si presta a fornire la giustificazione teorica della prassi di controllo e autosorveglianza in atto.
Dalla talpa al serpente: una nuova cittadinanza nell’epoca dei big data?
Che ne è del dispositivo moderno della cittadinanza nell’interazione coi big data, nuova, ipermoderna o postmoderna, tecnica di addomesticamento?
Se la cittadinanza impone un giuridico e materiale assenso ai doveri imposti dallo Stato, insieme a una tutela circa determinate condizioni e possibilità d’azione, opinione e pensiero, i big data forniscono il silenzioso sorvegliante per monitorare il rispetto di queste. I big data bagnano le mutande degli autoritari di tutto il mondo: permettono una sorveglianza leggera, non opprimente, ma spontanea; se la società disciplinare, così come descritta da Michel Foucault in Sorvegliare e punire (acquista), esibisce il suo potere tramite manifesti occhi sorveglianti, quali la torre di sorveglianza nelle prigioni, la società del controllo, ipotizzata da Gilles Deleuze nel Poscritto sulle società di controllo, agisce subdolamente tramite l’autocertificazione del controllato circa il proprio essere controllato. La cittadinanza si staglia come meccanismo di gestione degli individui da parte dello Stato sulla società disciplinare, emerge come polo individualizzante, che certifica l’essere corpo e uomo sociale del cittadino, e massificante, che segna con un numero di matricola la sua posizione nella massa:
Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero di matricola che indica la sua posizione in una massa. Le società disciplinari non hanno mai riscontrato incompatibilità tra i due, il potere è al tempo stesso massificante ed individualizzante, cioè costituisce come corpo quelli sui quali si esercita e modella l’individualità di ciascun membro del corpo.
Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo
Le società disciplinari sono costituite da spazi chiusi: la famiglia, la scuola, la caserma, la fabbrica, l’ospizio, l’ospedale e il carcere. Ciò che Deleuze individua nella società del controllo è uno slittamento dallo spazio chiuso, striato, allo spazio aperto e liscio: dalla fabbrica al tele-lavoro, dalla caserma al supermercato, dall’ospedale ai servizi senza paziente e dottore. Lo spazio, un tempo suddiviso e assegnato, diventa deterritorializzato, assente di caratteristiche predefinite, ma trasformantesi al passaggio dell’uomo: esso ha come modello lo spazio digitale, con le sue fluttuazioni e i suoi automatisimi operativi, le sue strade composte da codici e il suo ambiente asettico. Si assiste al passaggio dall’uomo della società disciplinare all’uomo della società del controllo, dalla talpa al serpente:
Non ci si trova più di fronte alla coppia massa/individuo. Gli individui sono diventati dei “dividuali”, e le masse dei campioni statistici, dei dati, dei mercati o delle “banche”.
Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo
Il self-tracking, e più in generale la geolocalizzazione, forniscono la più aperta manifestazione dello spazio della società del controllo, uno spazio potenzialmente illimitato, non contrassegnato direttamente da barriere, ma costantemente codificato, segnalato, sorvegliato. Il percorso non è prescritto, ma si dischiude a seconda del movimento: il serpente lascia le tracce delle sue spire, costantemente segnala il suo passaggio sulla rena dove scivola. In questo senso, pur muovendosi in libertà, rende sempre noto il suo percorso. Con inquietante chiaroveggenza, nel 1990 Deleuze scriveva:
Non c’è bisogno della fantascienza per concepire un meccanismo di controllo che dia in ogni momento la posizione di un elemento in ambiente aperto, animale in una riserva, uomo in una impresa (collare elettronico). Félix Guattari immagina una città in cui ciascuno può lasciare il suo appartamento, la sua strada, il suo quartiere grazie alla sua carta elettronica (dividuale) che faccia alzare questa o quella barriera, e allo stesso modo la carta può essere respinta quel giorno o entro la tal ora; ciò che conta non è la barriera ma il computer che ritrova la posizione di ciascuno, lecita o illecita, ed opera una modulazione universale.
Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo
Più che da una differenza sostanziale, il passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo è segnato da una differenza nello stile: la seconda non impone direttamente, tramite una torre di controllo, la sorveglianza, ma sono gli stessi sorvegliati a desiderare la sorveglianza e a sorvegliarsi: per usare internet devo accettare che i motori di ricerca raccolgano i miei dati e li rivendano, così per i social network e per il cellulare. Si acconsente spontaneamente alla propria sorveglianza, ci si autosorveglia. Si tratta di una persuasione leggera, non violenta come il panopticon foucaultiano, ma delicata, accettata come compromesso o, nel caso in cui applicata per combattere un’epidemia, per un fine superiore.
I big data forniscono la possibilità attuale di dissolvere l’individualità disciplinarmente costituita in favore della dividualità fluttuante della società del controllo. L’emergenza Coronavirus rende possibile l’aggiornamento dei governi circa le nuove tecniche biopolitche e psicopolitiche di controllo sociale. In quest’ottica la cittadinanza assume un volto diverso, seppure simile, all’esercizio individualizzante che possiede l’analogica carta di identità, o la patente, la tessera elettorale, il certificato di nascita. Passando attraverso la rete, materializzandosi in applicazioni che permettono l’identificazione del cittadino, il suo costante monitoraggio e tracciabilità, il cittadino perde la sua consistenza territoriale e fisica: la cittadinanza si svuota della carica territoriale per rigenerarsi in semplice monitoraggio. Se la cittadinanza legava a un qui determinato, non legava circa la permanenza o il percorso interno al territorio; una cittadinanza dataizzata, invece, lascia libero circa il territorio e lo spostamento, ma non circa la loro trasparenza e visibilità: la tessera elettorale impone di andare a votare in un comune, ma non di partecipare a un circolo di partito nella parte opposta d’Italia.
Reso carcerato consensuale, il cittadino diventa cittadino virale, potenzialmente pericoloso poiché potenzialmente malato. Si assiste ad una pre-ospedalizzazione della cittadinanza, al controllo preventivo del cittadino. E chissà se la cittadinanza, la quale già obbliga a doveri che non si è chiesto in cambio di benefici comunitari, possa divenire un giorno vincolata a nuovi obblighi, quale la costante reperibilità e l’auto-tracciamento, prima di oggi impensabili.
La dataizzazione della cittadinanza pone un’altra, problematica questione: chi gestirà i big data raccolti? Quasi certamente, visto lo strapotere oligopolistico, le grandi aziende di data mining e data analysis. Bisogna aspettarsi un’alleanza fra i centri del potere statale, forza essenzialmente disciplinare, e il capitalismo delle piattaforme digitali, antesignane della società del controllo?
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Lo Stato può diventare non solo un Leviatano autoritario, ma anche copia parodistica delle aziende di data mining, più inefficiente e altrettanto pericolosa, la cittadinanza programma di governo, il cittadino consumatore sorvegliato. Probabilmente è solo una farneticazione postmoderna, ma la teoria critica, pur non contrassegnando adeguatamente la società effettiva, ne disegna il modello, descrive l’asintoto patologico alla quale tende. In questo senso è un costante campanello d’allarme che suona per mettere all’erta, qualora assopiti, delle distopiche possibilità delle società umane: non è che la società disciplinare fosse davvero costituita da carcerieri che sognavano un sogno d’incarcerazione totale, siccome le prime comunità umane non sono sorte nel modo e con gli intenti descritti dai giusnaturalisti. Piuttosto entrambe le analisi forniscono un’interpretazione logica delle immanenti forme sociali, ne ipotizzano la giustificazione e ne vagliano le derive. Certo è che, nei suoi primi vagiti, la società del controllo manterrà ancora moduli operativi disciplinari, quali il diffuso uso di esercito e polizia per controllare il rispetto delle regole, la disposizione di un domicilio per determinare l’area di movimento, l’assegnazione familiare dei sussidi, eccetera.
Solo l’idiotismo ci può salvare: ipotesi per una fuga
Etimologicamente, “idiota” significa “colui che non ha cariche politiche”, “l’individuo privato”, o, ancora, “particolare, che sta a sé”. Nel suo significato è nascosta l’estrema possibilità dell’essere autentico, il farsi straniero del cittadino, almeno virtualmente, per stravolgere ogni prospettiva politica e sociale, ogni direzione che nella normalità conduce sempre e soltanto al centro grigio dello status quo. In una società profondamente comunicativa e informativa, bisogna moltiplicare i punti di rottura, le bolle rarefatte che non comunicano, ma esprimono: divenire irreperibili e irrintracciabili, non nel senso neo-luddistico dell’abbandono della tecnologia, ma nel senso di un utilizzo incomprensibile del mezzo, la profanazione dello strumento, ossia l’eterogenesi del suo scopo.
Durante l’iperinflazione, nella Repubblica di Weimar giravano un mucchio di contanti. Ci sono foto di bambini che giocano con pile enormi di banconote. Essi instauravano uno spazio di gioco sul corpo serioso e sacro del denaro, controvertivano il suo uso, lo espropriavano del senso, profanavano il suo cadavere. La profanazione è un atto di profonda libertà, significa restituire all’uomo ciò che da prima gli era interdetto, liberare dalla divinità il sacro.
Profanare i big data significa rendersi un’unità informativa incerta, eccentrica, non riporre sé stesso online ma mostrare soltanto un giocoso simulacro; rendersi indecifrabile, inoggettivabile, benché ciò forse non sia totalmente possibile.
L’idiotismo come pratica politica è un continuo sfuggire dal pregiudizio del dispositivo, farsi da parte per non sostare dove si annodano gli interessi, praticare l’ascesi dello stilita che riceve solo flebili nozioni del mondo. In questo senso, è essere «idiosincratico», come scrive Byung-Chul Han nel suo bellissimo Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche di potere, ossia rappresentare l’impedimento, rallentare col proprio corpo l’accelerazione neoliberale:
l’idiotismo rappresenta, di fronte alla coercizione alla comunicazione e alla conformità, una pratica di libertà. L’idiota è, secondo la sua essenza, il non-connesso, il non-informato. Egli abita l’esterno che non può essere pensato in anticipo e che si sottrae a ogni comunicazione.
Abitare l’esterno, ossia non-connettersi, portarsi fuori dalla sacralità dei big data pur permanendovi, profanandoli, pervertendoli.
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