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Vita, risse e vendette di Benvenuto Cellini

Altro che i poeti maledetti: siamo nel Cinquecento e Benvenuto Cellini vive una vita spericolata e artistica, un vero e proprio capolavoro. Ma chi è questo enigmatico personaggio?

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9 minuti di lettura

Prima dei poet maudits, prima di Caravaggio, prima del futurismo, prima che fosse di moda, per le vie di Firenze si aggirava un bischero: Benvenuto Cellini. Era un teppista, un irrequieto, un ubriacone, un attaccabrighe, ma sapeva infondere la sua sregolatezza e aggressività nel marmo e nel bronzo. La sua era un’arte perfetta e aggressiva, colma di sublime odio, di viscerale umanità.

La nascita e l’infanzia

Benvenuto Cellini nasce nel 1500, a Firenze, da Giovanni d’Andrea di Cristofano Cellini, suonatore di flauto e viola e da Elisabetta Granacci. Il matrimonio dei genitori è d’amore e mal veduto dalla famiglia, tanto che a un certo punto Giovanni Cellini sbotta e si porta via la futura moglie, andando a «godersi la giovinezza», come dice il Cellini stesso. Dopo due maschi nati morti e una femmina, finalmente i Cellini hanno un figlio maschio, che chiameranno, non a caso, Benvenuto

Di carattere irrequieto sin dall’infanzia, il piccolo Benvenuto Cellini viene costretto dal padre a suonare il flauto. È bravo, ma lo detesta: la considera «arte troppa vile a quello che io avevo in animo». Appena può, ovvero a 15 anni, inizia a frequentare contro il volere del padre la bottega dell’orafo Marcone, «un bonissimo praticone, e molto uomo dabbene, altiero e libero in ogni cosa sua».

La prima rissa di Benvenuto Cellini

Quando ha 16 anni, il carattere viene fuori. Sono le 22, è tra porta San Gallo e Porta a Pinti con il fratello Cecchino, quattordicenne. Il fratello attacca baruffa con un garzone di vent’anni. Urla, bestemmie. Poco dopo escono i coltelli. Cecchino «tanto valorosamente lo serrava, che avendolo malamente ferito, seguiva più oltre». Il piccolo Cecchino si accanisce sul corpo quasi morto del povero garzone. Una folla inorridita si raduna attorno alla scena. Sono quasi tutti amici o parenti del garzone. Iniziano a darle a Cecchino. Qualcuno tira una pietra e Cecchino sviene a terra. Benvenuto tira fuori il coltello. Sferra coltellate alla cieca trattenendo la folla inferocita. Dopo pochi minuti arrivano le guardie a salvarlo.

Colpo Aereo Della Città

I due teppisti vengono condannati a stare a 10 miglia dalla città. Così, Benvenuto si porta Cecchino a Siena, senza un soldo. Ma il mestiere si può sempre inventare e Benvenuto Cellini bazzica i mastri orafi di tutta Siena, mantenendo così il fratellino e perfezionando il suo talento.

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Passato il tempo che doveva passare, ritornano a Firenze ma il padre compie un errore fatale: manda Benvenuto a Bologna per ultimare la sua formazione musicale. Benvenuto Cellini, che non ne poteva più di quel maledetto suonare, non se lo fece ripetere due volte e a Bologna fece tutto tranne che suonare il piffero. Poi Pisa e infine, ammalato, il ritorno da bravo figliol prodigo alla casa paterna, dove rischia seriamente di dover diventare musicista.

L’amore per Francesco

A salvarlo, per fortuna, ci pensa uno della razza sua: Pietro Torrigiani, la cui opera più nota è il pugno che tirò al divinissimo Michelangelo Buonarroti, deformandogli per sempre il naso. Cerca giovani talentuosi da portare con sé per una commissione ricevuta da Enrico VIII Tudor. I due sono troppo simili per piacersi. Mentre Torrigiani racconta del pugno sferrato al Buonarroti, Benvenuto Cellini scrive «Queste parole generorono in me tanto odio, perché vedevo continuamente i fatti del divino Michelagnolo, che non tanto ch’a me venissi voglia di andarmene seco in Inchilterra, ma non potevo patire di vederlo».

Abbandonato il Torrigiani, Benvenuto Cellini continua a frequentare le botteghe fiorentine. Si fa notare, molti lo vogliono con sé, ma lui ha occhi solo per un «gentil giovanetto di mia età», Francesco, col quale strinse amicizia istrettissima, tanto stretta che Cellini scrive, non lasciando ombra a dubbi: «nel praticare insieme generò in noi un tanto amore, che mai né dì né notte stavamo l’uno senza l’altro». 

La fuga di Benvenuto Cellini a Roma

In seguito decide però di fuggire e di andare a Roma con un altro giovinetto, un certo Giovan Battista Tasso. È il 1519. Un’avventura dopo l’altra, arrivano nell’Urbe. Qui, Benvenuto inizia a frequentare la bottega del Firenzuola, salvo poi spostarsi nella bottega avversaria. Nel giro di qualche settimana scatta la rissa con il suo vecchio padrone, durante la quale Cellini pronuncia il suo manifesto: «Dissi ch’io era nato libero, e cosí libero mi volevo vivere (…) e come lavorante libero volevo andare dove mi piaceva».

Biografia di Benvenuto Cellini

La rissa coi Guasconti

Ora che è bravo, ricco e famoso, può tornare a Firenze. Oramai è il maestro, tutti lo ammirano, ma sono in tanti a spargere infamie. In particolare, la famiglia dei Guasconti, orafi come lui. Benvenuto Cellini si presenta alla loro bottega. Provano a colpirlo facendo cadere dei mattoni. Lui gli rifila uno schiaffo leggendario. Tira fuori il coltello e quelli scappano. Ma questo è solo l’inizio della faida. I Guasconti denunciano il Cellini alle guardie. Appena quest’ultimo lo viene a sapere, si fionda a casa Guasconti e urla «O traditori, oggi è quel dí che io tutti vi ammazzo!» e pugnala al cuore Gherardo. Esce di casa: dodici parenti della vittima. Benvenuto si ficca nella mischia, pugnala e picchia chi può. Le dà e ne prende. Poi di corsa, come faceva all’epoca chiunque avesse commesso reati gravi, alla prima chiesa a chiedere protezione. Capitò a Santa Maria Novella.

Il successo romano di Benvenuto Cellini

In qualche ora organizzò la sua nuova fuga a Roma, dove mette su una bottega orafa assumendo un quattordicenne garzone, Paulino, con cui intesse un’altra “affettuosa amicizia”. Tutti vogliono i suoi gioielli: cardinali, nobildonne, cavalieri e persino il papa, che lo chiama e prende a corte con sé. 

Tra risse e capolavori, arriva la peste a Roma. Benvenuto Cellini, inspiegabilmente, si salva, ma prende il mal franzese, la sifilide (cosa, questa, invece spiegabilissima), probabilmente contagiato da una «servicella di tredici in quattordici», con la quale, dice, «godetti piacevolmente quella notte». I medici, però, lo curano in tempo e lui ne esce senza troppi problemi, pronto a rituffarsi nella sua vita corsara.

Roma è una grande metropoli ellenistica, piena di puttane, bische, coltelli, libero amore, risse e criminali. È la Roma di Michelangelo, Raffaello e Bramante ed è la capitale mondiale del vizio. È Roma che fa inorridire Lutero, è la Roma pronta ad essere distrutta.

Clemente VII – De' Medici – Araldicacivica

Benvenuto Cellini e il sacco di Roma

Nel 1527, infatti, Carlo V si mette in testa di scendere in Italia e incita i suoi lanzichenecchi vestiti di camicioni con maniche a sbuffo, arlecchini con delle scuri e degli spadoni da berberi. Affamati, puzzolenti e luterani, volevano far piazza pulita dei romani viziosi. Dopo aver ucciso il leggendario Giovanni delle Bande Nere, entrano a Roma.

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Saccheggiano i palazzi, le chiese e soprattutto le osterie. Devastano, ammazzano, stuprano uomini, donne, frati e suore. La città è al collasso, in mano al capriccio dei lanzi. Sta morendo il rinascimento. Benvenuto Cellini, che non conosce «di che colore la paura si fusse», spara all’impazzata con il suo fucile da caccia. Poi si rifugia a Castel Sant’Angelo, a difendere in extrema ratio il papa. Comanda i cannoni e ammazza frotte di lanzichenecchi, fino a che non se ne vanno. In una Roma distrutta, Cellini si ingrazia il papa Clemente VII, che lo perdona anche quando ficca un pugnale in testa all’assassino del fratello Cecchino. 

Ma Clemente VII si ammala e muore. A succedergli c’è Paolo III Farnese con cui non avrà mai un bel rapporto, complice anche l’ostilità del figlio del papa. Pier Luigi Farnese, infatti, non si accontentava di essere figlio del papa e passa alla storia per essere un noto rompiscatole, stupratore plurimo che arriverà addirittura a violentare il vescovo di Fano (il famoso “oltraggio di Fano”). 

La fuga da Castel Sant’Angelo

Benvenuto Cellini ammazza Pompeo, rivale gioielliere, ma senza volerlo, dice lui. Potrebbe chiedere di nuovo perdono al papa, ma è meglio cambiare aria: Firenze, Ferrara, Venezia. Il suo passaggio è peggio di quello di Attila: ribalta tutto, ammazza, ferisce. Poi torna a Roma ma si ammala. Sta per morire. Febbre altissima, visioni e vaneggiamenti. Di certo non aiutano i rimedi del dottor Francesco di Norcia: profumi, lavande, unzioni, impiastri e addirittura piú di venti mignatte (sanguisughe, ndr) al culo. Ma Benvenuto Cellini, inspiegabilmente, guarisce. Ha 35 anni e tanti guai da combinare ancora. Qualche mese dopo, in seguito a una scaramuccia col papa, si trova le guardie svizzere ad ammanettarlo. Lo portano a Castel Sant’Angelo per aver sottratto, dicono, dei beni al papa durante il sacco di Roma. Qui entra in scena l’ingegno. Rubacchia attrezzi e assi di legno, si fa amico il carceriere, fiorentino come lui, taglia e cuce lenzuola. Poi, una notte senza luna nel silenzio di Roma, Cellini, novello Casanova, evade da Castel Sant’Angelo. Una guardia lo vede ma prende paura e si gira dall’altra parte. 

È quasi fuori quando cade e si rompe una gamba. Arranca fino alla casa dell’amico cardinale Andrea Cornaro, che prima lo nasconde e poi lo tradisce. Mentre è a letto con la gamba ingessata si ritrova di fronte per la seconda volta gli sbirri del papa. Di nuovo Castel Sant’Angelo e finalmente, nel 1539, la libertà, per mano del cardinale Ippolito d’Este.

Il periodo francese di Benvenuto Cellini

Il re di Francia Francesco I vuole le sue opere. Benvenuto Cellini corre in Francia (fa solo una piccola tappa in cui spara a un mastro di posta con cui stava litigando). Il re lo adora e il carattere del Cellini lo diverte. La corte invece trova le sue bischerate insopportabili e i pettegolezzi abbondano.

C’è però un episodio che, più di tutti, svela la crudeltà e il lato efferato di Cellini. Il fatto è questo: Benvenuto Cellini ha una serva, Caterina, di cui è gelosissimo e che lo serve di giorno come scultore e di notte come amante. Una sera, rincasando, trova «Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato». Caccia via Pagolo, Caterina e la sua vecchia madre. Finirebbe qui, se non fosse che Caterina vuole vendicarsi. Così denuncia Cellini, dicendo «che io avessi usato seco al modo italiano; qual modo s’intendeva contro natura, cioè in soddomia; dicendo: – Per lo manco, come questo italiano sente questa tal cosa, e saputo quanto e’ l’è di gran pericolo, subito vi donerà parecchi centinaia di ducati, acciò che voi non ne parliate, considerando la gran penitenzia che si fa in Francia di questo tal peccato».

Si fa il processo, non senza passaggi comici. «il giudice replicò, dicendo: – Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso dove si fa figliuoli -. A questo io dissi che quello non era il modo italiano; anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che lei lo sapeva e io no; e che io volevo che lei dicessi a punto innel modo che io avevo aùto a far seco. Questa ribaldella puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il brutto modo che la voleva dire».

Cellini chiede il rogo per Caterina e la madre. Lei piange. Il giudice condanna Benvenuto al pagamento di 500 scudi. Si chiuderebbe così, ma qui viene fuori la ferocia del Cellini.

La ferocia di Benvenuto Cellini

Scoperto dove sono andati ad abitare Pagolo, Caterina e la madre, gli piomba in casa con un notaio e un arsenale di armi. Costringe Pagolo e Caterina (la iscellerata puttanella) a sposarsi, lì e subito. Ora che si sono sposati può riprendere Caterina a servizio a palazzo. Ma la fa lavorare nuda, la stupra. Un giorno il feroce la pesta a sangue. Dopo due settimane passate a letto Caterina torna, follemente innamorata, da Benvenuto

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Ma tutto questo baccano è ormai arrivato alle orecchie di Francesco I, la corte non ne può più (ed è difficile darle torto) e Benvenuto Cellini, 45enne, lascia spontaneamente la Francia, lasciandosi alle spalle una figlia. Torna a Firenze. È tempo di mettere nel bronzo il torrente di sangue che ha attraversato le sue passioni. 

Il ritorno a Firenze e il Perseo

Nel 1545, infatti, Cosimo de’ Medici commissiona a Benvenuto Cellini una statua maestosa, che diventerà il suo testamento spirituale: il Perseo con la testa di Medusa. La collocazione è altrettanto maestosa: Piazza della Signoria, a Firenze. Nel 1554 è pronta. Perseo sta in piedi sul busto di Medusa con uno spadone in mano. In mano tiene la testa di Medusa, che gronda, decapitata, fiotti di sangue dal collo. Una visione orrenda. Perseo, alto 5 metri, è statuario, nudo, muscoloso, bellissimo. Ha vinto, tiene la testa del mostro in mano. Eppure, ha uno sguardo malinconico, triste, deluso. Di tutto quel vivere selvaggio, Benvenuto Cellini sente forse di non aver poi ottenuto nulla. Eppure in quella statua c’è tutto: angoscia, violenza, sublimità, vendetta, carnalità, amore, passione. E persino un suo autoritratto, nascosto tra i capelli di Perseo.

Benvenuto Cellini, Perseo | Loggia dei Lanzi: "Perseo con la… | Flickr
Perseo con la testa di Medusa. Foto di Aurelio Candido (@FLICKR)
File:Cellini, perseo 10 autoritratto.JPG
L’autoritratto nascosto di Cellini (Sailko, wikimedia)

Gli ultimi anni

Le cose e i tempi, però, a Firenze son cambiati e per le sue scorribande corsare c’è ormai poca aria. Viene condannato perché «cinque anni or sono ha tenuto per suo ragazzo Fernando di Giovanni di Montepulciano, giovanetto con el quale ha usato carnalmente moltissime volte col nefando vitio della soddomia, tenendolo in letto come sua moglie». Cellini viene sbattuto due mesi al fresco e Benvenuto maledice e stramaledice nei suoi sonetti tutto e tutti 

Porca fortuna, se tu scoprivi prima
che ancora a me piacesse il Ganimede!
Son puttaniere ormai, com'ogni uom vede,
né avesti di me la spoglia opima
(...)
Venga il canchero a te, tue ruote e stella!

È un periodo di inattività, scandito dai processi per le tante risse e per i suoi amori proibiti. Ma questa volta non si vendica, non ammazza, non accoltella. È vecchio e stanco, si lamenta, borbotta, farfuglia. Scrive la sua Vita tra il 1558 e il 1567, ma verrà pubblicata solo nel 1728. Poi, a 71 anni, muore, solo, a Firenze. Corre l’anno 1571. 

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