Nel magma della musica rock contemporanea – dove già rock può dire tutto e niente – ribolle il genio di Kevin Parker, leader degli australiani Tame Impala, che stanno definendo album su album i confini di quella che è, di fatto, la neopsichedelia dei Duemila. Il 17 Luglio è uscito Currents, l’ultimo lavoro della band di Perth: il mondo della critica musicale ne ha già parlato molto, potevamo forse mancare noi?
Giusto per tracciare un semplice quadro storico-musicale è bene premettere che la neopsichedelia si è diffusa dagli anni ’80, quando le sonorità dell’ondata punk (al tempo, in netta fase calante) si arricchiscono rielaborando la psichedelia della mitica Summer of Love; quando Woodstock e l’Isola di Wight tornano ad affascinare l’estro dei musicisti, senza ignorare però le distorsioni e le urla disperate della «generazione Sex Pistols». I frutti di questo connubio neopsichedelico sono essenzialmente due: il noise rock e il dream pop. Il primo, le cui bandiere sono gruppi come Sonic Youth, My Bloody Valentine o Jesus & Mary Chain, è più sperimentale, graffia le orecchie dell’ascoltatore con un muro rumoroso di chitarre distorte, riverberi acuti, e linee ritmiche martellanti. Il dream pop è l’esatto opposto: per esempio, i Cocteau Twins hanno ricamato tappeti sonori di pregiata ricercatezza, armonie fluttuanti dove gli echi sono dolci e le parole indefinite.
I Tame Impala non rientrano in nessuno di questi due mondi. Sembrano svegliarsi dalle paludi di Woodstock, attraversare decenni e decenni di musica, per guardare alle sonorità di inizio Millennio con occhiali vintage, pronti a rimettere in discussione tutto quello che hanno assorbito. Ovviamente nutrendo tutto ciò con un sano gusto sperimentale. The less I know the better è una delle canzoni più accattivanti dell’album, e rappresenta infatti le anime che lo costituiscono: la melodia è trainata da un basso degno della migliore disco ’70-’80, la chitarra lo accompagna con un effetto pulito anni Sessanta, e il tutto è cantato dalla solita voce sognante, riverberata e in falsetto, ereditata dal dream pop.
In Currents, il grande merito dei Tame Impala è stato quello di ridipingere il concetto di canzone pop-rock. I ragazzi lo hanno fatto innanzitutto sviluppando la natura artistica intrinseca nei lavori precedenti – Innerspeaker del 2010 e del 2012 Lonerism, entrambi aggrappati alle influenze degli anni ’70 – e poi reinterpretando le suggestioni musicali esterne, ossia quelle dal mondo dell’elettronica, della disco anni Ottanta, del funky.
Pochi giorni fa l’edizione italiana di Rolling Stone ha intervistato Kevin Parker e compagni, e dal leader è stato così descritto il processo creativo da lui seguito:
Ogni mia azione è il risultato di una combinazione variabile di sfide personali e intuizioni. Creare musica è qualcosa di spirituale. Non sono un tipo spirituale, ma per me la musica è sacra. Mi spingo sempre oltre, sperimentando e cercando nuovi spunti. Un conto è amare tutti i generi musicali e un altro è unirli in maniera coerente e soprattutto fluida.
Il messaggio è chiaro: per i Tame Impala comporre un album è un atto importante, che richiede un maniacale rimaneggiamento delle intuizioni. Il musicista deve plasmare il corpo della canzone in modo che essa sembri indipendente, nata da se stessa. Ascoltando Let it happen, brano d’apertura di Currents e suo singolo promozionale, si è colpiti dal talento puro che sgorga in questa canzone e intride poi le tracce seguenti. È nella seconda metà di Let it happen che si sente la svolta rispetto ai passati lavori. Un effetto glitch (che simula la ripetizione anomala della medesima traccia sonora) è riempito da cupi archi sintetici, arriva poi il beat scandito della batteria, il suono acidissimo del synth, subito dopo la voce robotica (un richiamo ai Daft Punk?) ed ecco che scoppia un riff sensuale di chitarra. La nuova anima dei Tame Impala è questa.
Ad un ascolto ininterrotto, l’unica pecca della nuova creatura di Kevin Parker è la monotonia: la sensazione di pesantezza, cioè, che scaturisce dalla linea ostinatamente in falsetto del cantato – basti pensare al trio di ballate vagamente anni Ottanta composto da Yes I’m changing, Cause I’m a man, Love/Paranoia. Non a caso, le parole sono sempre coperte da effetti riverberati. Ma la voce è l’unico aspetto propriamente musicale che stanca, poiché l’ampio uso di tastiere e sintetizzatori, vero punto di svolta stilistica dopo i primi due album, non compromette una gamma inaspettatamente varia di suggestioni sonore. D’altronde il rischio di monotonia è comprensibile in un album-scomessa che si vuole, appunto, prendere rischi. Ciò che importa è che la psichedelia annacquata di Currents trasporta in terre finora inesplorate, ricche di fiori dimenticati e di sintetizzatori rispolverati, sulla nave di una band dell’era digitale. E non è poco. Da troppo tempo, oramai, forse addirittura dalla morte di Kurt Cobain, la musica sembra incapace di reinterpretare il passato classico dei ‘60/’70 e del punk rispondendo all’esigenze social dei Duemila. Currents è in questo senso un altro importante passo, dopo Innerspeaker e Lonerism, per consegnare alla musica della nostra «società liquida» una psichedelia fluida, perché un album del 20** emozioni quanto un album del 19**.
Andrea Piasentini
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