Indignarsi è un verbo rude. Il primo istinto nel sentirlo è rincorrere uno stato diverso. A permettere di percorrere l’indignazione in tutta la bruttezza di sensazioni che comporta è solitamente la rabbia. Trascinati da essa ci si posa fino alla fine nell’indignazione, ci si sdraia dentro e si comprende che alla sua base c’è un empatico istinto verso chi ha subito un’ingiustizia.
Se fossimo nella Mesopotamia dei tempi antichi l’indignazione in molti casi non esisterebbe: la legge del taglione, assunta come dogma legislativo, non permetterebbe l’empatia con il colpevole. La sua colpa prevarrebbe su ogni tipo di benevolo sentimento nei suoi confronti. La corsa alla lapidazione sarebbe l’istinto prevalente, perché legittimato in modo indubbio. Se fossimo in un regime totalitario l’indignazione sarebbe solo una categoria strettamente correlata alla morale individuale. Nascosta da sovrastrutture troppo forti, l’istinto non riuscirebbe mai a prevalere su una serie di moti collettivi indirizzati a un bene superiore, o meglio ciò che la propaganda reputa un bene superiore.
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Ma come funziona l’indignazione in democrazia? Normalmente l’indignazione trova il modo di venir fuori, si fa carico dell’ingiustizia come valore assoluto, a prescindere da chi ne è portatore. E se il portatore è un colpevole, la sua colpevolezza deve essere inquadrata in un meccanismo giusto perché sia punita. Se il portatore dell’ingiustizia è un ladro o un omicida, l’istinto primario è quello della soddisfazione. La natura asseconda questa azione involontaria dei nervi e dei pensieri. Eppure tutto il processo storico che ci ha portato a definirci democratici si basa su una razionalità che inquadra l’istinto in un quadro più complesso, placandolo negli schemi della giustizia.
È la giustizia, che fa capo allo Stato, a ristabilire l’ordine. Non la natura. La natura asseconda la rabbia, nega quello che è successivo, la ragione. Porta l’uomo a perdersi nella parità delle ingiustizie: occhio per occhio dente per dente, una mano per un frutto rubato, una mela per una mela.
Così l’uomo che uccide viene messo in condizione di discutere le circostanze. Nella totale consapevolezza degli eventi si decide la pena. Nell’intero meccanismo la dignità non manca mai: basta una sua semplice negazione per riaffermare quella natura che secoli di pensiero sono riusciti a domare. E se lo si nega, quel pensiero, allora significa che è l’istinto ad aver prevalso. E l’istinto non è mai bilanciato, non è mai neutro, non è mai espressione di democrazia. Bendare l’uccisore, acclamare al bendaggio, invocare la fretta del sangue è negare secoli di sviluppo del pensiero, farsi accalappiare nella propaganda della rabbia.
Fomentare l’ingiustizia contro l’ingiusto è facile. Indignarsi ancora per l’ingiustizia all’ingiusto è umano. È più umano ed è più rispettoso: perché che la vendetta ristabilisse l’ordine violato era vero solo nei primordi della tragedia greca. Poi il meccanismo è cambiato. È cambiato il pensiero e si è capito che Medea non ristabiliva l’ordine con l’uccisione dei figli per punire l’abbandono da parte del marito. Anzi, così facendo Medea assecondava il furore e il furore cieco era quello che secoli dopo un certo Golding nel suo romanzo Il Signore delle Mosche avrebbe associato all’istinto di natura senza pensiero, trovando la sua fonte nel male.
Bendare la democrazia significa bendare se stessi e impedirsi di vedere: è paradossalmente questo il modo per parificare uccisore e ucciso nel ruolo di vittima. Ed è questa l’ingiustizia più grande.
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