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Benevento, 1266: guelfi e ghibellini ai ferri corti

Storia dello scontro decisivo tra le due fazioni che segnò la fine del dominio svevo nell'Italia meridionale.

4 minuti di lettura

Guelfi e ghibellini, due fazioni che hanno acceso lo scontro politico, militare e religioso nell’Italia del Medioevo e in particolar modo del XIII secolo, arrivando al culmine con la battaglia di Benevento. Da un lato i sostenitori del pontefice – che difendeva la concezione di una Chiesa legittimata ad esercitare anche il potere temporale sugli uomini – dall’altro i sostenitori dell’imperatore, i ghibellini, che vedevano invece il potere civile e monarchico come unico riferimento terreno, mentre alla Chiesa associavano esclusivamente il potere spirituale.

Lo scontro tra queste due fazioni, che nel Medioevo ha assunto connotati internazionali, coinvolgendo sovrani e imperatori, papi e vescovi, letterati e uomini politici, in Italia ha trovato il massimo sfogo in una celebre battaglia, quella che ha avuto luogo nei pressi di Benevento, nel 1266, tra le truppe di Carlo d’Angiò – re di Napoli appoggiato dalla Chiesa – e quelle ghibelline di Manfredi di Svevia, figlio di Federico II che prese il potere nel regno di Sicilia dopo la morte del padre, avvenuta nel 1250.

La battaglia di Benevento in una miniatura della “Nuova Cronica” di Giovanni Villani del 1350

La questione del Regno di Sicilia e lo scontro per la successione tra Manfredi e Corradino

Federico II di Hohenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero e sovrano di Sicilia, non ha bisogno di particolari presentazioni. Capire perché gli Hohenstaufen fossero invisi alla Chiesa è piuttosto semplice. Un forte potere imperiale, accentratore, che con Federico II aveva apertamente sfidato il potere temporale della Chiesa, rappresentava per quest’ultima un pericolo. Federico stesso era dipinto da guelfi ed ecclesiastici come il vero anticristo.

Federico II di Svevia

Basti ricordare, di Federico, la Pace di Giaffa, siglata nel 1229 col sultano musulmano, proprio mentre il Papa si aspettava da lui, invece, una crociata contro gli infedeli. E poi la grande libertà e multiculturalità della corte di Palermo, le scomuniche ignorate dall’imperatore, la volontà di rivendicare con forze il potere civile su quello ecclesiastico, da ridimensionare alla sola sfera spirituale. Tanto bastava a Federico per mettersi contro la Chiesa, i Papi e i signori di mezza Italia.

Alla morte dell’imperatore, nel 1250, si è aperta la questione della successione. A chi sarebbe andato questo potere imperiale consolidato e rafforzato dall’azione politica, militare e culturale di Federico? I due contendenti erano il figlio naturale, Manfredi di Svevia, e il nipote diretto Corradino, nel frattempo in Baviera. A Federico II la Germania, invece, non era mai piaciuta più di tanto, preferendo di gran lunga spostarsi tra la Puglia, la Campania e la sua Sicilia; la città di Palermo, dove risiedeva stabilmente la corte.

Miniatura di Manfredi, XIII secolo

Manfredi, soprannominato anche Sultano di Lucera (era la città pugliese dove il padre, Federico, aveva incoraggiato il trasferimento di migliaia di cittadini arabi di religione musulmana) nel 1258 aveva autonomamente preso il potere, data anche la lontananza di Corradino di Svevia. Nessuno dei due rimarrà al potere, come inizierà a mostrare l’esito della battaglia di Benevento del 1266. Lo scontro ha portato all’uccisione di Manfredi, seguita da quella di Corradino, nel 1268, durante la battaglia di Tagliacozzo.

Corradino di Svevia

Le manovre della Chiesa romana, il ruolo degli Angiò e il dispiegamento per lo scontro a Benevento

Due sono stati i pontefici a gestire le manovre che porteranno, in seguito, alla battaglia di Benevento. Prima Urbano IV, poi il successore Clemente IV. La Chiesa di Roma, infatti, che alla morte di Federico II, nel 1250, aveva tirato un sospiro di sollievo, non poteva permettersi una continuazione – seppur indebolita – dei piani dell’imperatore di Svevia, per tramite dei suoi successori. Manfredi (e possibilmente anche Corradino) andavano tolti di mezzo.

La Chiesa, che aveva vicinissimi gli Angioini del Regno di Napoli, capeggiati dal re Carlo, aveva iniziato pertanto a stuzzicare le fantasie di quest’ultimo circa un possibile dominio sul Regno di Sicilia. Unificare l’intero Mezzogiorno d’Italia sotto il dominio angioino, sbarazzandosi degli eredi svevi e ghibellini di Sicilia.

Il pontefice Clemente IV e il re Carlo I d’Angiò, Di Véronique PAGNIER – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11808152

La disfatta sveva di Benevento e la morte di Manfredi

Per concretizzare questa manovra, dalla quale ovviamente Carlo d’Angiò non si sfilò, il re di Napoli aveva fatto in modo di far giungere dalla Francia i necessari rinforzi militari. Dall’altra parte Manfredi, trincerato a Capua, preparava i suoi per fermare in battaglia i nemici angioini. La battaglia definitiva ha avuto luogo a Benevento il 26 febbraio del 1266. Entrambi gli eserciti erano ben armati e pronti allo scontro all’ultimo sangue.

La parte angioina vantava la presenza, tra le schiere, di numerosi nobili francesi, cavalieri e condottieri. Tra questi i Monfort di Castres, in particolare Filippo, tra i più noti uomini d’arme dell’epoca. Non solo. Cavalieri guelfi erano giunti anche dalla città di Firenze, per sostenere l’attacco contro i ghibellini svevi. La parte sveva, invece, cioè quella di Manfredi, includeva tra i soldati anche militari saraceni, già impiegati anche da Federico II in battaglia, soprattutto arcieri.

L’esito del conflitto, tuttavia, è stato sfavorevole al sovrano di Sicilia, Manfredi, che cadde in combattimento durante l’ultima carica, nella quale si sarebbe lanciato dopo aver capito che la disfatta era ormai certa. Per la Chiesa e per gli Angiò la grave minaccia della continuazione del potere svevo in Sicilia e nell’Italia meridionale era arginata. Ancora di più, due anni più tardi, nel 1268, come detto con la morte di Corradino di Svevia, nipote di Federico, catturato dagli Angiò e dalle truppe papaline e giustiziato a Napoli.

La decapitazione di Corradino di Svevia, a Napoli nel 1268

La Sicilia in mano agli Angiò, gli scontri del Vespro, la pace di Caltabellotta

Morti i due candidati al trono di Sicilia, eredi diretti di Federico II di Svevia, la promessa papale a Carlo d’Angiò si era concretizzata. Gli Angioini, infatti, conquistarono la Sicilia incontrando ristrettissime resistenze, esclusivamente limitate ai nobili rimasti fedeli a Federico II e alla fazione ghibellina. Resistenze, tuttavia, insufficienti ad arrestare l’avanzata angioina nell’isola. Ma anche il potere degli Angiò su quelli che erano stati i territori degli Svevi, non era destinato a durare molto.

Il re Pietro III d’Aragona

L’esplosione, nel 1282, della famosa Guerra del Vespro siciliano, ha portato alla cacciata degli Angiò, filo-francesi e filo-papalini e alla presa del potere da parte degli Aragonesi. La corona di Sicilia, infatti, andrà a Pietro III d’Aragona, che aveva sposato Costanza II di Svevia, figlia di Manfredi. Pietro d’Aragona, proprio sulla base del legame coniugale, approfittando dell’insofferenza della Sicilia nei confronti degli Angiò, aveva rivendicato il potere sull’isola, vantando il legame familiare con Manfredi di Svevia, dunque in linea di discendenza con Federico II.

Raffigurazione araldica di Alfonso V d’Aragona

Lo scontro di nuovo acceso, stavolta tra Aragonesi e Angioini, si raffredderà solo nel 1302, con la Pace di Caltabellotta, siglata tra Carlo II d’Angiò, re di Napoli e Federico III d’Aragona, re di Sicilia. La situazione rimarrà pressoché stabile fino al 1442, quando Alfonso V d’Aragona riuscirà a sottrarre agli ultimi Angioini la corona di Napoli, acquisendo l’ulteriore titolo di Alfonso I di Napoli, soprannominato Il Magnanimo. Tra scontri, dispute, accordi politici, diatribe laiche e religiose, numerose conquiste e riconquiste, la battaglia di Benevento rimane un momento cardine ed emblematico di una delle fasi più delicate del Medioevo in Italia, ma anche in Europa.

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Paolo Cristofaro

Classe 1994, laureato in Scienze storiche all'Università della Calabria. Docente di Italiano, Storia e Geografia nelle scuole medie statali. Giornalista pubblicista.

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