Il Forte di Bard incatena lo sguardo lucido e giocoso del fotografo documentario e pubblicitario Elliott Erwitt (Parigi, 26 luglio 1928). La struttura sta ritta a sorvegliare la via d’accesso alla Valle d’Aosta. Nell’antica fortezza di sbarramento, a dilatare lo sguardo sono esposte 137 fotografie del maestro del XX secolo. La vista, che all’esterno si spalanca sulla valle del ghiacciaio balteo, le cascate, i vigneti, all’interno si apre su luoghi più assurdi, e pregni, dell’umano.
Elliott Erwitt è stato soldato americano, assistente fotografo in Francia e in Germania. Tre culture sono affluenti della sua formazione: quella russa, d’origine dei genitori, quella italiana, della sua vita fino al 1938, quella francese e americana, della sua vita di prima e di poi. Sempre itinerante, si sposta tra America ed Europa, fotografando divi di Hollywood e lavorando per l’esercito. Conosce Edward Steichen, Robert Capa, Roy Stryker, ma il suo “Virgilio” primo è Henri Cartier-Bresson. Entra nella Magnum Photos, di cui ancora oggi è parte. Attualmente scrive libri e saggi, e ha prodotto commedie satiriche per la televisione. La sua pagina ufficiale recita che «A Elliott Erwitt piacciono i bambini e i cani».
Erwitt scrive poesie per gli occhi, fissando dietro le pupille, in uno spazio tra la testa e il cuore, tagli che dicono di un’umanità bonaria, che sta al mondo felicemente, ma senza prendersi troppo sul serio. I suoi scatti sono flash fulminanti comprensione, attimi densissimi, in cui si concentra tutta una parte di mondo. Il fotografo le racconta come congiunture di microelementi che gli si regalano fortuitamente, dopo lunghi periodi di aridità di stimoli. A un occhio sveglio, vivace, sempre all’erta, sottilmente romantico in tutto, la situazione giusta, quando si presenta, non sfugge.
«La fotografia è il momento, la sintesi di una situazione, l’istante in cui tutto si amalgama. Un ideale ineffabile».
Elliott Erwitt è istintivamente talentuoso, sia a livello tecnico che di ispirazione. Dice di non stare mai troppo a lambiccarsi per cercare una bella inquadratura, per una fotografia che dovrà essere importante. Già la sua lettura del mondo è sequenza di fotogrammi formalmente perfetti, e la bellezza è tutta questione di prospettiva. Si tratta solo di allinearsi al ritmo incalzante della vita, di divertirsi, e di cogliere con vivacità quello che offre. Abbaiare ai cani per far sussultare le padrone, piangere i contrasti del mondo, fermare i sorrisi sullo sfondo della guerra. Guardare i cani e i bambini, che sono tanto più buffi, un poco più matti. Ma sanno anche regalare le tristezze più spigolose, le denunce più sfacciate.
«Non mi definirei in alcun modo. Non mi sveglio al mattino pensando che sarò spiritoso».
«Preferisco essere più divertente che tragico. È un fatto inconscio».
Elliot Erwitt un personaggio non se lo costruisce, e forse proprio per questo tanto più fervidamente lo è. Le sue fotografie pungono con una comicità assurda, che spinge le lacrime negli occhi, altalenante tra il riso e il pianto. Sono situazioni ricchissime di umanità, un’umanità amata profondamente da chi con tanta sensibilità la dipinge.
«Non faccio mai coscientemente delle fotografie ai cani, ma qualche anno fa ho scoperto per caso che nei miei provini c’erano molte fotografie di cani».
Erwitt è istintivo, inconsapevole, spalancato al mondo e alle carte che il caso apparecchia. Si muove sveglio e ricettivo nella realtà, e senza filtri vi interagisce, quando si sente chiamato a farlo. E a farlo, si diverte un mondo.
Ha scattato delle fotografie pregne, che raccontano momenti di storia del mondo particolarmente solenni. Come la Segregated Water Fountain, con i due lavandini, quello sporco per i neri e quello pulito per i bianchi, alimentati dallo stesso tubo, ma che sgorgano acqua diversa; una fotografia emblematica del razzismo che infetta l’America. Ma anche le fotografie più dense scaturiscono spontaneamente, dall’incontro disponibile e paziente con la causalità. Poi, la riflessione e la selezione, possono renderle iconiche.
«Quando è ben fatta, la fotografia è interessante. Quando è fatta molto bene, diventa irrazionale e persino magica. Non ha nulla a che vedere con la volontà o il desiderio cosciente del fotografo. Quando la fotografia accade, succede senza sforzo, come un dono che non va interrogato né analizzato».
Da questa prospettiva bonaria e divertita sul reale, Elliott Erwitt ha raccontato circa sessant’anni di storia, a colori e in bianco e nero.
Gli scatti di Elliott Erwitt sono in mostra al Forte di Brad, in Valle d’Aosta, fino al 13 novembre 2016, nella più grande retrospettiva di uno dei nomi principali della fotografia. I 137 scatti esposti coprono un arco temporale che va dal 1948 al 2005. Sono divisi in nove sezioni: Beaches, Cities, Abstractions, Museum Watching, Dogs, Between the Sexes, Regarding Women, Kids, Personalities.
«Some people think I’m dead, because I’ve been around so long».
[jigoshop_category slug=”cartaceo” per_page=”8″ columns=”4″ pagination=”yes”]