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Ballata di Uomini e Cani-Omaggio teatrale di Marco Paolini a Jack London

7 minuti di lettura

Da martedì 4 a domenica 9 marzo è andato in scena al Teatro Stabile di Verona “Ballata di Uomini e Cani”, spettacolo di Marco Paolini dedicato a Jack London.

A partire dalla prossima settimana lo spettacolo si sposterà nei teatri di Venezia, Padova e Trieste.

Marco Paolini, autore e attore di teatro, nell’ormai consolidato sodalizio con il musicista brianzolo Lorenzo Monguzzi (sodalizio cominciato nel 2004 con Song n. 32-ndr) abbandona per un istante il teatro sociale al quale il suo pubblico era abituato ed, in qualche modo, affezionato, per farsi messaggero e depositario di una “cultura country”, rispecchiata in un mito privato, ovvero quello dell’ormai topico rapporto tra uomo e cane. Depositata la maschera del narratore portavoce del civile e contemporaneo, indossa quella da narratore vero e proprio, esordendo sulla scena nelle vesti dello scrittore statunitense famoso per “Zanna Bianca” e “Il richiamo della foresta”.

“Preferite Zanna Bianca o Il Richiamo della foresta?”, chiede, rivolto al pubblico, con un finto accento anglosassone a cadenza veneta, cifra caratteristica del “gramelot” paoliniano.

Al grido Zanna Bianca della platea replica “Lo sapevo! Ma per stasera lasciamo perdere i romanzi, troppo lunghi…stasera vi racconterò delle storie”. Ed è così che con l’abilità narrativa che caratterizza sin dagli esordi il teatro di Paolini (“Il racconto del Vajont”, 1999-ndr), il narratore/autore inizia a delineare gli esotici paesaggi del Canada nord-occidentale, lo Yuhkon, il Klondike, la corsa all’oro della fine del XIX secolo. Lo spettatore pare avvertire brividi di freddo, nonostante sia al caldo della sala e segue con fiato sospeso le vicende di uomini disperati alla ricerca di un brandello di speranza nelle pepite d’oro depositate sul letto del fiume, di vagabondi “bastardi”, di avventurieri “senza immaginazione”.

La scena è piuttosto spoglia. Solamente dei bidoni metallici, che si trasformano via via in slitta, cumuli di neve, patibolo, sorretti da un’impalcatura fatta di assi di legno. Il fondale è scuro, solamente una sorta di lampadario-installazione, funzionale però alla proiezioni di animazioni-video di Simone Masi, che accompagnano la voce di Paolini e dei musicisti nell’ultimo racconto.

Paolini è in grado di coinvolgere, nonostante la difficoltà dell’impresa. In fondo non è semplice creare la trasposizione teatrale di un’opera di narrativa ad alto contenuto descrittivo, eppure il risultato è sorprendente. Lo spettatore, in un primo tempo stupito, alla fine non rimane deluso. Anche perché Paolini, con la sua mimica spartana e caustica, l’abilità nel rispettare i tempi teatrali e sopratutto i tempi comici, gli usi dialettali, le piccole finestre sul quotidiano, è in grado di tenere sempre allerta l’orecchio e la mente di chi ascolta, di azzerare la realtà con la potenza empatica della narrazione, di strappare una risata quando meno te l’aspetti con collegamenti tra navi che affondano perché “hanno colpito un iceberg ed altre perché si scontrano con un bulbo di Giglio” e, subito dopo, immergere di nuovo il pubblico in una glaciale tragicità.

Ma la sua voce non è sola:

“Lo spettacolo ha la forma di un canzoniere teatrale con brani tratti da opere e racconti di Jack London e con musiche e canzoni ad essi ispirate che non svolgono funzione di accompagnamento ma di narrazione alternandosi e dialogando con la forma orale.” (M. Paolini, intervista a Jolefilm, estate 2013).

La voce e la chitarra è di Lorenzo Monguzzi, autore delle musiche dello spettacolo, con il quale Paolini spesso duetta istrionicamente.

Con lui due dei musicisti della “Piccola Orchestra Variabile” che aveva collaborato con la coppia Monguzzi-Paolini nello spettacolo della scorsa estate “Song n. 14”: Angelo Baselli al clarinetto e Gianluca Casadei alla fisarmonica.

Tra musica e parole due ore passano senza rendersene conto. I racconti scelti sono tre, con un ordine di drammaticità e tensione ascendente: il comico “Macchia”, il brutale “Bastardo” e il tragico “Preparare un fuoco”.

All’interno di questo viaggio nelle terre estreme e selvagge del nord del mondo Paolini vuole rivelare un Jack London in parte diverso, più crudo, di quello a cui si è abituati:
“A lui devo una parte del mio immaginario, ma Jack non è uno scrittore per ragazzi, la definizione gli sta stretta. È un testimone di parte, si schiera, si compromette, quello che fa entra in contraddittorio con quello che pensa. È facile usarlo per sostenere un punto di vista, ma anche il suo contrario: Zanna Bianca e Il richiamo della foresta sono antitetici. La sua vita è fatta di periodi che hanno un inizio e una fine e non si ripetono più. Lo scrittore parte da quei periodi per inventare storie credibili dove l’invenzione affonda nell’esperienza ma la supera.

Sono partito da alcuni racconti del grande Nord, ho cominciato questo spettacolo raccontando le storie nei boschi, nei rifugi alpini, nei ghiacciai. Ho via via aggiunto delle ballate musicate e cantate da Lorenzo Monguzzi. Ma l’antologia di racconti è solo il punto di partenza per imparare a costruire storie andando a scuola dallo scrittore.
So che le sue frasi non si possono “parlare” semplicemente, che bisogna reinventarne un
ritmo orale, farne repertorio per una drammaturgia.” ( M. Paolini, intervista a Jolefilm, estate 2013).

Ad essere messo in scena è solo apparentemente il rapporto tra uomo e padrone. È, più in profondità, il rapporto tra uomo e natura, che si rivela essere una leopardiana Natura Matrigna, indifferente all’uomo nel suo narcisista ed egoistico tentativo di dominarla. In un crescendo lungo questo filo conduttore si aprono scenari sull’essenza dei rapporti, nella storia di un cane da slitta che non voleva trainare la slitta perché “lo sguardo di Macchia diceva uguaglianza -one face, one race- il che significa: se non traini la slitta tu, perché cazzo la devo trainare io”, della sottile linea tra odio e amore, nella storia di un cane “bastardo” di nome e di razza, il cui “grande sogno nella vita era uno: uccidere il suo odiato padrone”, dei propri limiti, nello struggente attimo in cui si osserva un avventuriero senza nome che non ascolta le leggi della Natura, segnando così la sua sorte.

Il grande successo di questo spettacolo, e del teatro in generale, va ricercato proprio in questo: nell’essere in grado di mettere in scena storie apparentemente quotidiane, oppure impossibili, lontane ed estreme, nell’antitetica e polare possibilità di qualsiasi narrazione, eppure essere in grado di smuovere nello spettatore quell’antico sentimento catartico che lo fa uscire dalla sala “divertito ma più pensante”.

Il grande successo dell’arte, in ogni sua forma, dalla letteratura di London alla rilettura teatrale di Paolini, alla musica di Monguzzi, si manifesta nella sua immortale attualità. Nonostante i costumi di scena stile hoboes, i paesaggi Artici, le atmosfere da America 1897, i sentimenti e le angosce umane rimangono invariati nel tempo e nello spazio.

E nel confronto tra Uomo e Animale non è la razionalità, signora della nostra modernità, ad averla vinta. “Jack London è uno scrittore per bambini perché uccide gli uomini e fa vivere i cani”, dice l’attore durante lo spettacolo. In realtà Jack London è uno scrittore per Uomini che fa parlare i cani, la foresta, i lupi, la natura tutta. E fa alzare loro il grido disperato contro un’umanità superficiale, che pensa di essere arrivata. Jack London mette in scena i miseri per dimostrare all’uomo la sua piccolezza e fragilità. Jack London fa vincere gli istinti, ma quelli veri. Gli istinti di fedeltà, nel momento in cui un Macchia abbandonato torna, nonostante tutto, sempre a casa, confrontandoli con la crudezza di un uomo che per l’utile sarebbe disposto a uccidere, o vendere al miglior offerente. Gli istinti di sopravvivenza, in un Bastardo malmenato che tenta di uccidere il padrone; gli istinti di bestialità che prendono l’uomo solitario e misantropo che non sa far altro che odiare per non rendere conto di se stesso; gli istinti di sopravvivenza che dovrebbero allarmare l’uomo a 25 gradi sotto zero, perché “il cane una cosa sapeva: con 25 gradi sotto zero si sta a casa, oppure si cerca un uomo che accenda un fuoco”, l’ostinazione del giovane superuomo che pensa di poter sconfiggere il gelo con dei fiammiferi ed un tronco di betulla ma non fa i conti con la neve che cade e spegne il fuoco, non fa i conti con le dita che si gelano, non ascolta i vecchi che gli dicono che con 25 gradi sotto zero non si esce: perché “non aveva immaginazione”, aveva una “mission” da compiere, voleva dimostrare a tutti i costi che lui poteva portare a termine la sua avventura. Ma l’animale non vuole morire, l’animale rispetta le arcane naturali gerarchie, e si salva.

“Vi chiederete come posso sapere che il cane se n’era andato visto che sono morto assiderato. Vi svelerò un segreto: durante il racconto io ero il cane”, così nell’attimo in cui il Paolini attore toglie la maschera del narratore svela nel finale la superiorità della Natura.

E nel finale un’ultima sorpresa.

In un tempo in cui le ultime mode giovanili vedono la stringente esigenza a partire per viaggi raminghi in territori desolati, spinti, certo, in parte, dal desiderio di fuga dalla nevrotica società del consumo, ma spesso da racconti avventurosi mitizzati, come quelli di London, da ansie esistenziali che paiono avere come unica risoluzione finale la fatica e l’incertezza della sopravvivenza nell’immediato futuro, Paolini svela la drammatica realtà sottesa a questi “miti” del “viaggio estremo”. I personaggi di London erano vagabondi per necessità. Non c’è filosofia in un cercatore d’oro, solo fame. E racconta la storia di Zaher, vagabondo contemporaneo, ragazzo che dall’Afghanistan legandosi sotto treni e imbracandosi clandestinamente su navi, sognava la libertà in una terra straniera, ma è morto, come un cane, sotto le gomme di un Tir, sotto il quale si era legato, a Mestre.

Non ci sono miti, storie avventurose su Zaher, solamente alcune frasi ritrovate sul suo diario, che Paolini e Monguzzi sovrappongono alla melodia che ha guidato i racconti di London, in un’ultima ed essenziale armonizzazione.

“Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendesi il mio corpo, 
chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario? In un luogo alto sia deposta la mia bara 
così che il vento restituisca alla mia Patria il mio profumo.

Io che sono così assetato e stanco forse non arriverò fino all’acqua del mare.
 Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio, 
che non lascerai passare la primavera”.

Costanza Motta

 

Costanza Motta

Laureata triennale in Lettere (classiche), ora frequento un corso di laurea magistrale dal nome lungo e pretenzioso, riassumibile nel vecchio (e molto più fascinoso) "Lettere antiche".
Amo profondamente i libri, le storie, le favole e i miti. La mia più grande passione è il teatro ed infatti nella mia prossima vita sono sicura che mi dedicherò alla carriera da attrice. Per ora mi accontento di scrivere e comunicare in questo modo il mio desiderio di fare della fantasia e della bellezza da un lato, della cultura e della critica dall'altro, gli strumenti per cercare di costruire un'idea di mondo sempre migliore.