«Sono una di quelle persone che pensa che attraverso una finta schiavitù ci si libera, e attraverso una finta libertà si è completamente concatenati»
Franco Battiato nasce il 23 Marzo 1945 a Jonia, provincia di Catania, dalla cui provincialità presto si sente asfissiato. Il cantante siciliano inizia da allora la propria ricerca trasferendosi nel 1965 a Roma prima e a Milano poi. Aspira innanzitutto ad un posto lontano dall’aria di casa: la metropoli del nord si sostituisce al tedio giovanile scaturito dall’ ambiente ottuso, stagnante, del proprio paese.
Più profondamente, sente l’esigenza di scavare a fondo, in se stesso, sia artisticamente – col superamento del primo periodo di canzonette – che esistenzialmente: dalla musica amplia infatti i suoi interessi alle filosofie orientali, avvertendo sempre più le fredde catene che lo stringono in quella finta schiavitù, scintilla che accende il suo percorso eclettico.
Eppure, circola una sconclusionata semplificazione della discografia di Battiato: intellettuatolide, descrivendo l’atteggiamento di chi utilizza forme contorte per dar sfoggio della propria erudizione oppure, e spesso le due coincidono, per mascherare l’assenza di un pensiero acuto. È chiaro come non sia il caso di Battiato.
Dunque perché mai bollare come intellettualoide, strano, tutto ciò che non si ha voglia di approfondire? Così il cantante risponde a chi lo critica di scrivere con parole a caso, vuote: «Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, perché il testo di una canzone non va mai letto ma ascoltato, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo».
Come si è prima accennato, Franco Battiato esordisce dunque a Milano: al Club 64 si esibisce assieme a giovani sconosciuti fra cui Enzo Jannacci e Giorgio Gaber (di cui curerà le musiche nello spettacolo Polli d’allevamento nel 1978) e, per vendersi bene, opta per un repertorio di brani folkloristici. In realtà, è solo un modo per farsi un nome; il siciliano le vende infatti come canzoni del XV secolo, quando sono brani da lui stesso composti riprendendo canti popolari sentiti a Jonia. Ve l’aspettavate un Battiato così sfacciato, così “giovane”, che cavalca l’onda della musica commerciale mascherandosi da prodotto chic?
Durante il servizio militare – poco dopo la pubblicazione di Fetus nel 1972 – fa letteralmente impazzire i suoi capi, che non sopportavano la sua indifferenza. «Qualsiasi cosa mi dicessero di fare io rispondevo con calma e tristezza “non potevo, non potevo, non potevo…” » e apprende un metodo per simulare svenimenti. Fin da allora, dunque, non ha remore a manifestare il proprio dissenso da alcune pretese – da lui ritenute folli – della società capitalistica.
Dirà infatti del suo secondo album Pollution: «è stato in classifica ai primi posti. Oggi non troverei chi me lo pubblichi. Ai miei tempi nei festival se vedevano un bollino di Coca Cola si sfasciava tutto. Oggi siamo all’apologia del marchio».
Dal 1971, con Fetus, al 1978 con L’Egitto prima delle sabbie, Battiato trova nel rock progressivo-sperimentale (Fetus, Pollution) e nella musica sperimentale (Clic, M.elle le Gladiator, Battiato, Juke Box) il più naturale prodotto della sua incessante attività di ricerca. Non si accontenta mai. Dopo aver esordito con due concept-album ispirati a Il mondo nuovo di Aldous Huxley (Fetus e Pollution) inizia il percorso, che perdura tuttoggi, di resa in musica del perfezionamento interiore: largo uso delle sovraincisioni, suggestioni sonore che si fanno più introspettive, e i testi – quando presenti – sono più autobiografici. Come il chiaro indizio di Sulle corde di Aries (1973) cioè di Ariete, il segno zodiacale del cantante, disco spartiacque fra i due momenti del periodo elettronico. Le musiche ampliano lo spettro degli stili e così i nuovi lavori s’indirizzano ad un pubblico ristretto e colto, a causa del particolare procedimento di stratificazione. Ecco un’ intervista di allora che vale la pena ascoltare integralmente, consigliata per godersi l’acume del maestro.
Il 1979 è l’anno della svolta. L’Egitto prima della sabbie, title-track dell’omonimo album, ottiene il Premio Stockhausen – che, fra l’altro, fu il visionario mentore di Battiato, colui che lo avviò alla composizione d’avanguardia. Un brano di 14 minuti dove viene ripetuto un accordo: acme, dunque, del concetto di musica zen. E nello stesso anno viene pubblicato il più famoso L’era del cinghiale bianco, imprimendo alla discografia del cantante uno straordinario impulso pop che amalgama il fascino orientale alla new wave (allora guidata da gruppi fra loro diversi come i The Cure, Talking Heads, Elvis Costello), gli echi mediterranei a quelli internazionali del rock. Patriots e La voce del padrone rappresentano l’equilibrio musicale perfetto tra poesia e leggerezza, attenzione al sociale e orientalismo, impreziosendone la rarità con i molteplici rimandi alla letteratura e al rock classico (il famoso Mister Tamburino).
Stilisticamente parlando, il percorso tracciato da questi tre lavori può apparire monotono, ma basta ascoltare due canzoni per comprenderne l’eterogeneità: dalla bellissima Pasqua Etiope de L’era del cinghiale bianco a Bandiera bianca, sono state nettamente affrancate strutture e melodie del rock progressivo.
Con La voce del padrone Battiato raccoglie l’enorme successo, seminato dall’incontro fra pop e “poesia filosofeggiante”. E così, il successivo album L’Arca di Noè (1982) è il secondo disco più venduto dell’anno dietro ad un certo Thriller di Michael Jackson – nonostante non siano così vicini musicalmente. Radio Varsavia, Scalo a Grado e, fra tutte, Voglio vederti danzare (con riferimento alle danze mistiche dei dervisci come raggiungimento dell’ estasi) non deludono la maturazione artistica conquistata coi precedenti capolavori, e al tempo stesso preludono al progressivo connubio fra elettronica, musica classica e world music araba.
Infine, con Fisiognomica (1988) si apre l’ultimo lungo periodo, accompagnato dall’amico e filosofo Manlio Sgalambro, che dal 1994 veste i panni di paroliere: Battiato torna ad una musica più colta, dedicando alle sezioni di archi il ruolo di spicco nell’incontro con gli strumenti pop (tastiere, bassi, batteria, sintetizzatori). Il progetto è ambizioso, rischioso, e facile è chiudersi in una musica elitaria e noiosa ai più. Eppure, accantonata la cantabilità degli anni di Bandiera bianca, l’arte evocata è infinitamente multiforme. Chi si aspetta che in mezzo a brani classici teologici come L’ esistenza di Dio (ne L’ombrello e la macchina da cucire, 1995) e disquizioni sulla reincarnazione come Vite Parallele (in Gommalacca, 1998), brillino chiare La cura ed E ti vengo a cercare?
Franco Battiato, insomma, continua una carriera artistica all’insegna della propria ricerca di nuove forme. Tanto da valicare anche i confini della pittura e del cinema. Una vita dedita (tuttora con l’ultimo album elettronico Joe Patti’s experimental group, 2014) all’ incessante sperimentazione, che rimarrà sempre nella memoria collettiva. Voce dal timbro nasale, sguardo di dura dolcezza, balletti bizzarri, e musica – “archetipica” su definizione dello stesso cantante – alla ricerca dell’ umanità.
Auguri, Maestro.
Andrea Piasentini
[…] apre con la tecnica delle voci campionate – che ricorda molto l’incipit de La Cura di Franco Battiato – ed è una semplice canzone d’amore con un mid tempo dall’incedere quasi […]