Quando nel 1927 comparve in Germania la prima edizione di Essere e Tempo si ebbe come l’impressione che fosse un gigante quello che si affacciava sulla scena filosofica della prima metà del ‘900. Parliamo ovviamente di Martin Heidegger, grande protagonista del secolo passato che probabilmente come nessun’altro influenzò i decenni a venire.
Personaggio strano ed inquieto, dallo sguardo tenebroso, Martin Heidegger «visse, lavorò e morì», formula che lui stesso adottò per tracciare la biografia di Aristotele durante il corso tenuto presso l’Università di Friburgo nel semestre estivo del ‘34. Una vita dedicata alla ricerca, come voleva Socrate, all’indagine filosofica, travagliata interiormente ma schiva, passata lontana dai riflettori. Era solitario, oltretutto, quasi dal carattere eremitico: costruitosi una piccola baita nei pressi della Foresta Nera, aveva l’abitudine di passarvi i periodi di pausa dal lavoro, nella tranquillità delle lunghe passeggiate che in qualche modo ritornano nel lessico dei suoi scritti. L’ambiguità della persona si accompagnava però ad un rigore intellettuale fermissimo, ereditato chiaramente da Edmund Husserl, suo maestro e importante punto di riferimento.
Legato dunque alla fenomenologia filosofica, Heidegger si distaccherà con Essere e Tempo dall’orientamento speculativo entro il quale era cresciuto, lasciandosi comunque influenzare dal metodo proprio del pensiero fenomenologico. C’è un errore, dice Heidegger, che intacca l’intera filosofia occidentale: l’aver ridotto l’essere (quell’essere di cui la metafisica dovrebbe occuparsi), ad un ente, facendo dell’essere stesso il fondamento, per così dire, dell’essere dell’ente. In parole semplici: si è scambiato l’essere per una cosa, per un oggetto. Questo atteggiamento nefasto avrebbe preso il via con i primissimi filosofi greci, Anassimandro per esempio, e si sarebbe protratto fino ai pensatori più recenti come Friedrich Nietzsche. Essere e Tempo è il testo ove Heidegger si propone di “distruggere” questo paradigma, ripercorrendo la metafisica occidentale per decostruirne le fondamenta e tentare di prendere un sentiero diverso da quello già imboccato dalla filosofia.
Riproporre dunque la domanda sull’essere, ripostularla, sottoponendo l’essere a giudizio dinnanzi al tribunale della ragione. Ma chi dovrà vestire i panni dell’investigatore nella “gigantomachia” che concerne il disvelamento del senso dell’essere? Ebbene, si tratta di quell’ente che si pone tale problema: di certo non una pietra, non un tavolo e neppure un animale, quanto piuttosto l’Esserci (Dasein). Chi è l’Esserci? L’Esserci è quell’ente che sempre ci è e mai semplicemente è; quell’ente che è sempre situato emotivamente nel mondo, che di fatto vive il mondo, e non si lascia vivere; quell’ente per il quale la sua propria esistenza sta a fondamento dell’essenza, e non il contrario. Sono questi i tratti che caratterizzano l’essere umano che tale tuttavia non può essere chiamato. Uomo è ancora un termine che si attiene alle cose, agli oggetti, è una reificazione dell’irriducibilità dell’Esserci, ente che ha un rapporto primario con l’essere perché nella sua esistenza ne va del suo essere. Pico della Mirandola, con parole che piacquero a Jean-Paul Sartre, direbbe che l’uomo è «plastes sui», cioè si dà forma nel corso dell’esistenza, non resta determinato da un essenza previa: è l’Esserci che di volta in volta si rende padrone delle sue scelte, aderendo alla possibilità di essere autenticamente se stesso oppure fuggendo da questa.
Dato l’Esserci e data la sua peculiarità, Heidegger indica la tappa iniziale della ricerca concernente il senso dell’essere: la quotidianità dell’Esserci, il luogo ove questi si mantiene «innanzi tutto e per lo più». Nella quotidianità l’Esserci è costantemente preoccupato di contrapporsi agli altri, di mostrarsi differente, più alla moda, più bello, più intelligente; si commisura alle scelte e giudizi altrui, nell’anodina passività dello spazio pubblico. Questo fatto tuttavia, nota Heidegger, implica che l’Esserci «stia nella soggezione agli altri. Non è se stesso, gli altri lo hanno sgravato del suo essere. L’arbitrio degli altri dispone delle possibilità quotidiane dell’Esserci». L’Esserci non decide del proprio essere ascoltando il suo intimo volere ma tiene costantemente d’occhio qualcun altro, non impugna l’esistenza che gli appartiene ma lascia che le sue scelte siano decise da altri. L’Esserci, nella quotidianità, non è se stesso. Ma se non è se stesso, chi allora dovrebbe essere? È il Si, dice Heidegger, il pronome impersonale che significa tutti in generale e nessuno in particolare:
Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’altro […]. In questo stato di irrilevanza e indistinzione il Si esercita la sua autentica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Esserci determinato ma tutti […], decreta il modo di essere della quotidianità.
Il Si non è un super-soggetto, astratto ed inafferrabile, che in qualche modo controllerebbe l’esistenza quotidiana dell’Esserci. No, il Si è il modo quotidiano in cui l’Esserci si rapporta alla propria vita lasciando-si esistere: «Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso. Il Si, come risposta al problema del Chi [è] dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni Esserci si è già abbandonato». Nel mondo della quotidianità il Si «ha sempre ragione» livellando silenziosamente ogni autentica possibilità dell’Esserci e conformandone la volontà al si dice pubblico, per il quale non è importante tanto andare a fondo delle cose, delle informazioni che corrono sulla lingua di tutti, quanto piuttosto «discorrere pur di discorrere». La superficialità regna sovrana; l’autentico sforzo intellettuale o il genuino fallimento sono riassorbiti della melma del Si, che «c’è dappertutto, ma è tale da essersela già sempre squagliata quando per l’Esserci viene il momento della decisione».
Il mondo del Si quotidiano è il regno della chiacchiera, ove più che comprendere ciò di cui si discorre «ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale», stando sulla superficie, per così dire, delle informazione e non preoccupandosi del loro contenuto. Ad importare è la diffusione e la ripetizione del discorso stesso e nemmeno urge di decidere se «qualcosa è stato creato e conquistato con originalità o se è frutto di semplice ripetizione».
Analisi lucidissima, quella di Heidegger, volta a mettere in discussione un mondo che, per sua costituzione, passa inosservato. Bombardati dalle informazioni di giornali, radio, internet, il disegno di una società (ormai vecchio di quasi cent’anni) sempre più disattenta a se stessa, si è rivelato autenticamente profetico ma, altrettanto, rimasto per lo più inascoltato. Come una bomba ad orologeria esplosa a distanza di parecchi decenni dal suo innescamento, la quotidianità che ritrae Heidegger mette in discussione ciò che oggi ci ritroviamo fra le mani come frutto del nostro stesso essere. Anche Platone volle mostrare le terribili conseguenze che, nel suo sorgere, l’uso della scrittura avrebbe comportato. Ma nessuno gli prestò fede. Anzi: il di lui più brillante allievo, Aristotele, elevò la scrittura a forma di trasmissione del sapere par excellence, lasciando poi che la storia si prendesse cura di ignorare il messaggio del maestro. Oggi più che mai si rende evidente la necessità di riaffrontare il discorso heideggeriano e la sua analisi della quotidianità per riproporre, come a suo tempo lui stesso fece, la domanda sul senso della realtà che ci circonda. Ma chi di noi, come direbbe Friedrich Nietzsche, può sopportare una tale domanda?
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