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Attacco a Jenin: l’alba di una terza intifada?

Israele ha sferrato un duro attacco a Jenin piegandola in due. Cosa è accaduto? E quali sono i possibili scenari futuri?

4 minuti di lettura

È iniziato un luglio di fuoco per il popolo palestinese. Lunedì 3 luglio intorno all’una di notte, il governo israeliano di Benjamin Netanyahu ha lanciato un duro attacco aereo e terrestre contro campo profughi di Jenin, città nel nord della Cisgiordania occupata. Si tratta della più cruenta operazione militare, descritta dal governo israeliano come azione antiterrorismo, in questo territorio palestinese occupato dalla fine della seconda Intifada. Lunedì pomeriggio sono stati lanciati almeno 10 attacchi di droni contro edifici mentre una brigata di truppe israeliane, accompagnata da bulldozer e cecchini, ha invaso le strade della città. Il bilancio, secondo il Ministero della sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese è di dodici morti e cinquanta feriti, tra cui 10 gravi.

L’atmosfera è stata dura sin dalle prime ore: alcuni testimoni affermano che le strade di Jenin erano vuote, tranne che per una piccola folla fuori agli ospedali più vicini che assisteva ai posti di blocco israeliani e a spargimenti di lacrimogeni. Poco prima dell’attacco dall’altoparlante del minareto, dove il muezzin annuncia la preghiera, risuonava l’appello a sostenere i combattenti per la libertà. In un’escalation di violenza, Israele ha preso di mira con un attacco aereo anche una moschea, sostenendo che era utilizzata come base di addestramento militare per colpire Israele.

Cosa è accaduto durante l’attacco a Jenin

Le truppe israeliane si sono ritirate da Jenin tra il 4 e il 5luglio, concludendo così un’operazione su larga scala durata due giorni. Secondo l’ANP, oltre alle perdite umane, centinaia di unità abitative all’interno del campo sono state danneggiate o distrutte, con oltre 3.500 sfollati. Inoltre, l’operazione israeliana ha causato danni significativi alle reti elettriche, idriche e fognarie del campo profughi e dei quartieri circostanti. La municipalità di Jenin riferisce che sono stati distrutti circa 8 km di condutture idriche, con conseguente interruzione completa della fornitura di acqua al campo. Si stima che potrebbero essere necessari più di dieci giorni per avere un ripristino totale della vivibilità. Durante i due giorni di operazione, le truppe e i veicoli militari israeliani hanno invaso le strade che portano al campo profughi, già piccole e strette. Essi hanno impedito ad ambulanze e soccorsi di raggiungere i feriti.

Martedì mattina, un uomo palestinese si è gettato sulla folla con la sua auto nei pressi di un centro commerciale di Tel Aviv e ha ferito 7 persone. Un civile che si trovava tra la folla ha colpito e ucciso l’uomo. Dopo l’accaduto, il gruppo Hamas ha commentato il gesto come riposta agli attacchi a Jenin.

Tel Aviv si è accesa anche di proteste e scontri in opposizione al governo Netanyahu mentre Jenin resisteva all’invasione. Nel pomeriggio del 5 luglio, il capo della polizia israeliana Ami Eshed ha dato le dimissioni. Ha accusato il governo di aver fatto pressioni su di lui perché assumesse una linea più dura. Le sue parole hanno evidenziato quanto la società israeliana si stia polarizzando. Da un lato il sostegno all’estrema destra al governo, dall’altro i contestatori che temono un’erosione delle istituzioni proceduralmente democratiche che caratterizzano Israele.

I risultati dell’attacco

Nel frattempo, UNRWA ha dichiarato che molti residenti hanno urgente bisogno di cibo, acqua potabile e latte per bambini. L’OMS ha dichiarato che le innumerevoli ferite inferte alla popolazione stanno mettendo a dura prova il sistema sanitario dell’Autorità Nazionale Palestinese, già fragile e sottofinanziato. Inoltre, secondo MAP, hanno anche danneggiato il Freedom Theatre di Jenin dove si svolgono attività sociali. Mentre a Ramallah, sempre martedì, fuori dal checkpoint di Beit El, un cecchino ha ucciso ragazzo che protestava contro gli attacchi in corso.

I fatti di lunedì portano a 133 il numero di vittime palestinesi in nei territori occupati da inizio 2023. Quello a cui stiamo assistendo è lo spargimento di sangue più forte negli ultimi due decenni. Culmine, per ora, dell’escalation di violenza in corso da oltre un anno. Nell’ambito della cosiddetta “Operazione Breakwater”, infatti, da marzo 2022 l’intelligence israeliana ha intensificato gli sforzi per contrastare la resistenza armata palestinese. I principali target sono stati Jenin e Nablus, città accusate da Israele di essere la culla di «gruppi terroristici che minacciano l’incolumità di Israele». A gennaio, le forze israeliane hanno ucciso sette militanti e due civili a Jenin.

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Breve storia di Jenin

Nel corso degli ultimi vent’anni Jenin è stata teatro dei peggiori attacchi da parte dei coloni israeliani, dopo il fallimento degli accordi di pace del 2000. Nel 2002, un raid israeliano devastò la città e il suo campo profughi con oltre 400 case demolite.

Jenin ospita un grande campo per rifugiati fatto di cemento e mattoni, casa, oggi, di almeno 14mila persone. Creato nel 1948, il campo ha ospitato i primi profughi palestinesi della Nakbah. Oggi i loro figli e i nipoti vengono attaccati nuovamente: sono stati 3000 i residenti a lasciare il campo dopo il raid del 3 luglio. Posta a stretto contatto con coloni e truppe israeliane, l’insofferenza della popolazione di questa città alle insostenibili condizioni a cui è sottoposta è forte. I gruppi militanti che operano a Jenin sono la Jihad islamica sostenuta dall’Iran, Hamas, che controlla Gaza, e una parte di Fatah, che formalmente governa l’ANP. Tutti loro operano sotto il coordinamento delle Brigate di Jenin.

Sul piano internazionale i commenti sono di preoccupazione: gli USA da sempre sostengono il «diritto di Israele di difendersi» ma il presidente Joe Biden ha anche definito alcuni dei membri di questo governo israeliano come «tra i più estremisti» di sempre al potere. Il primo ministro britannico, Rishi Sunak, ha invitato lo Stato Ebraico alla moderazione. Per quanto riguarda l’ANP, è accusata dalla resistenza palestinese di non essere intervenuta a sostegno della popolazione, mentre il ministro della difesa israeliana ha dichiarato di «monitorare la condotta dei nostri nemici». L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha affermato che questa l’offensiva ha sollevato grosse questioni riguardanti la sfera dei diritti umani a livello internazionale.

I possibili scenari futuri

In molti si chiedono se questa intensificazione di violenza possa innescare una terza Intifada. Ricordiamo che il termine arabo Intifada ha il valore di “intervento”, “rivolta” ed è entrato nell’uso comune per identificare le rivolte con scopo di porre fine all’occupazione della Palestina. E anche gli scontri tra truppe e coloni israeliani da un lato e popolazione palestinese dall’altro. La prima Intifada vi fu nel 1987 denominata “intifada di pietre”. La seconda ha avuto inizio il 28 settembre del 2000 quando Ariel Sharon si presentò alla spianata delle moschee. Tra il 2014 e 2015, alcuni palestinesi accoltellarono dei militari israeliani sollevando così la questione di una terza Intifada ma non è mai stata denominata tale.

L’azione militare israeliana ha sollevato critiche da parte dei relatori speciali dellONU, Francesca Albanese, Paula Gavira Bentacur e Reem Alsalem, che hanno commentato l’accaduto come «punizione collettiva della popolazione palestinese».

I recenti sviluppi rafforzano l’idea che la Nakbah non sia un evento storico che appartiene unicamente al passato, ma un flagello che si protrae ancora oggi. L’ambasciatore della Palestina per le Nazioni Unite, Riyad Mansour, il 30 novembre scorso ha definito la situazione palestinese una catastrofe ancora in corso da 75 anni.

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Alessandra Ferrara

Nata nella provincia di Caserta e laureata in lingue straniere all'università Orientale e cultrice dei diritti umani presso La Sapienza. Sostenitrice della libertà e protezione dei più deboli, amo viaggiare scrivere e leggere e nel tempo libero sono una serie tv addicted.

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