Uno spettacolo difficile ma necessario, per amplificare le onde d’urto sulle nostre coscienze, che si sprigionano dalla scrittura ruvida e tagliente di due voci femminili: Svetlana Aleksievič (Nobel 2015) e la giapponese Kyoko Hayashi. L’attrice Elena Arvigo, attenta alle figure di donne scomode e coraggiose (memorabile la sua Anna Politkovskaja da Donna non rieducabile di Stefano Massini), capta lo sforzo di questa dolorosa missione del dire l’indicibile e ne fa urgenza comunicativa in Monologhi dell’Atomica, in coincidenza con l’anniversario della tragedia di Chernobyl e della fine della seconda guerra mondiale.
Per restituire la metodologia di scrittura polifonica della Aleksievič, che cattura la realtà combinando la viva voce di testimoni e documenti, la Arvigo rilegge Preghiera per Chernobyl (1997), le confessioni sussurrate dei testimoni, le loro reazioni emotive e le cicatrici dell’anima lasciate dal tragico 26 aprile 1986. Quelle pagine, inframmezzate da puntini di sospensione che celano solo in parte abissi di sofferenza, sono un pugno nello stomaco. La Aleksievič descrive l’evento come una catastrofe “cosmica”: nessuno sapeva come affrontare il nemico invisibile delle radiazioni, furono commessi molti errori di valutazione. Troppi innocenti pesano sulle decisioni scellerate delle autorità, che non avvisarono la popolazione in tempo: l’evacuazione dell’area iniziò solo 36 ore dopo l’esplosione del reattore.
Per la prima parte, la più lunga e intensa, si potrebbe parlare di “variazioni sul vuoto”. Si comincia con il vuoto dell’assenza incolmabile nella vita di Ljudmila, moglie di Vasilij, un eroico pompiere accorso nell’inferno rovente del reattore con altri compagni, chiamati a spegnere «un semplice cortocircuito».
Delicato e straziante è il gesto iniziale della Arvigo, che si spoglia di maschera antigas e tuta bianca di protezione per depositarla su una sedia accanto alla tavola apparecchiata. Quella sagoma “vuota” è la traccia eterea di Vasilij consumato dalle radiazioni, fantasma di se stesso, corpo che non è più corpo, assediato da piaghe e ustioni.
La Arvigo riesce a dare peso specifico alle parole con le giuste pause, come quel reticente «Ci vorrà… tempo» dell’infermiera, che racchiude nella pausa la tragedia di un limite, una scadenza fissata e irrevocabile. Consapevole dei rischi, Ljudmila compie la sua scelta e accetta solo le ragioni del cuore: vuole vivere con l’amato Vasja – per i medici solo un “oggetto contaminato” – i terribili giorni della sua agonia, per accompagnarlo verso la fine.
Pochi elementi essenziali disegnano gli spazi e un gioco di luci proietta l’ombra di una finestra sigillata sul mondo. La vita normale nella cittadina di Pripjat è un tavolo apparecchiato, dove le stoviglie sono mescolate alle macerie, simbolo di uno sradicamento forzato e di una vita sgretolata per sempre. In una scena disseminata di sedie vuote che ospitano i fantasmi di tanti innocenti, la storia di amore e morte continua all’ospedale dove la camera di Vasilij è riassunta nella rete ripiegata di un letto, pronta per essere riposta, ormai inutile.
Questo primo monologo è punteggiato anche dalla difficoltà del dire. La memoria seleziona, conserva solo alcuni lampi. Ljudmila parla, piange, sorride, ma spesso si ferma, per pudore o per cercare le parole. Per mettere in risalto la forza poetica di questa piccola donna, la Arvigo taglia i passaggi più crudi relativi al disfacimento del corpo di Vasilij, ma forse questa scelta attenua l’urlo di denuncia.
In scena, su un leggìo è posato un grosso volume: è il “libro” delle infinite tragedie di Chernobyl. Con un’efficace variante drammaturgica la Arvigo ci porta letteralmente a respirare quella tragedia. Sparge sulla scena manciate di terra, “contamina” la nostra aria pulita, ci coinvolge. È con la terra che il regime ha seppellito la Zona: oggetti, giocattoli, case. Un mondo di storie sepolto e migliaia di vite sradicate senza spiegazioni, perseguitate dal vuoto che si fa intorno: “quelli di Chernobyl” sono spogliati dei loro effetti personali, cioè dell’identità, e ovunque sono guardati da lontano, con tanto di cartelli che avvisano gli altri del pericolo di radiazioni.
Uno strappo improvviso nella rete drammaturgica è segnalato dall’avanzare di un secondo leggìo. Ora la Arvigo legge pagine da Nagasaki. Racconti dell’atomica (1988, tradotto per Gallucci nel 2015) della Hayashi, una superstite (hibakusha) del 9 agosto 1945. Un altro racconto dell’orrore, che risulta un po’ compresso in questa parte finale. La Arvigo trova però un filo sottile per legare il coraggio del “dopo” dei sopravvissuti, che sentono la responsabilità per il futuro: «La felicità è una cosa così semplice», dicono entrambe. A Mosca ha il colore di tre garofani che scintillano radioattivi nelle mani deformate di Vasja; a Nagasaki brilla verde in un germoglio d’erba, che cresce anche nella desolazione post-atomica. Un istante di grazia delicata restituito dallo sguardo di donne testimoni e scrittrici, in un’ideale staffetta per coltivare la necessità della memoria.
Monologhi dell’Atomica
da Svetlana Aleksievič e Kyoko Hayashi
di e con Elena Arvigo
Teatro Out Off, Milano
7-19 giugno 2016
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