Persiste nel discorso comune una tabuizzazione della sessualità che ha origine, anzitutto, nell’errata circoscrizione dell’argomento. Il peso dei fattori storico-morali (l’idea del sesso come atto riproduttivo) e dell’identificazione con forme di autonomia e ribellione che scardinano le norme etiche, ha contribuito a fare del sesso un argomento indicibile, gravato da inibizioni, difficoltà, impacci.
Ciò emerge con chiarezza quando si parla di relazioni fuori-canone, siano esse di natura omoerotica, poliamorosa o tra soggetti “sommersi”. L’errore primigenio risiede anzitutto nella sovrapposizione tra sessualità e rapporto genitale, perlopiù misurato sul piacere maschile che è penetrativo ed eiaculatorio. Niente di più sbagliato. La sfera della sessualità comprende una gamma di variabili che investono il fronte affettivo, i trascorsi del singolo, la disponibilità ad accogliere l’altro mediante un processo di acclimatazione che chiama in causa i sensi, i gesti, la modulazione della voce. Ogni discorso dovrebbe partire da qui, dalla capacità di com-prendersi come esseri in gioco, attori di una sessualità più diffusa e consapevole, meno limitante.
In quest’ottica il piacere erotico dei soggetti disabili costituisce il paradigma di una condizione ghettizzata, e ci sono troppe mistificazioni, troppi moralismi e impedimenti etici che ne nascondono la reale essenza. L’ipocrita concezione che il disabile sia anzitutto una “persona” (il solo bisogno di ribadirlo è aberrante) non fa altro che evocare, pur di traverso, una desessualizzazione che sposta il soggetto su un piano altro, quasi di regressione allo stato infantile. È errato pensare ai disabili come persone asessuate, o che addirittura non hanno bisogno di contatti fisici, anche basilari. Una carezza, un bacio (che per una persona con problemi respiratori non è scontato), una consapevolezza del proprio corpo e dei propri punti sensibili finora rimasti repressi per un’impossibilità fisica.