Attendere per non aspettare
Ci sono sinonimi che traggono in inganno, alla radice del fraintendimento, nella confusione: l’eleganza della parola sta spesso nella sua unicità. Piuttosto della vaghezza del simile bisognerebbe optare nell’essere specifico, speciale, mai specchio, mai sdoppiamento dai contorni incerti, solo l’ignoranza non può che condurre alla contraffazione, alla perdita dell’originale, dunque dell’origine delle parole che siamo nel nostro tempo e spazio. Il sinonimo centrifuga, fugge il centro del senso, i contorni sfumano: attendere e aspettare risentono di un’ambiguità che li avvicina senza rendere conto della differenza radicale, etimologica.
Chi attende, tende a qualcosa o a qualcuno (ad- tendere); nella tensione c’è una forza dinamica indirizzata, al di là del raggiungimento, forza mai sforzata, sempre tesa, viva. Per aspettare (ad-spicere), non ci si può muovere, si guarda, è il gioco dell’aspetto, degli occhi puntati contro, bisogna mettere a fuoco l’altro. Si ha di fronte qualcuno per aspettarlo, è già lì, lo si guarda, si può aspettare solo dopo aver atteso. Attendere non chiede altro, l’aspetto chiede e vuole solo l’altro nella stasi di chi ha già raggiunto il suo fine: la fine è l’aspetto.
L’attesa è lo spazio di un pensiero che progredisce, che avanza senza limiti nel tempo, per aspettare la distanza è già decisa, il possibile è delimitato alla visuale, al visibile. L’aspetto è sempre visivo, fisico, finito, limitato. Chi inizia ad aspettare, finisce di attendere. L’aspetto è la fine della tensione. Si finisce di attendere quando si è limitati, fisicamente. La natura ci fa aspettare perché siamo aspetto. Attendere significa precedere l’aspetto, muoversi prima che lo sguardo avido ci immobilizzi per metterci a fuoco, per colpirci. Si attende l’in-contro, si aspetto lo scontro, frontale, di fronte.
L’aspetto gode per lo sforzo del possesso, che diventa ossessione, una pretesa di avere sott’occhio, immobilizzare l’altro dal proprio punto di vista, senza lasciar essere, lasciar andare l’altro. Finisce ad aspettare chi non ascolta, chi continua a parlare con se stesso, chi non dà tempo e spazio all’altro ma lo circoscrivere nel suo fisico, una possessione riflessa, che diventa una deformazione , un flettere che rischia di spezzare l’altro, ripiegandolo su se stesso, verso il proprio ego.
L’aspetto dell’ironia: il teatro
Quando tornare alla radice delle parole non basta, la linfa delle stesse può farle rifiorire in nuove forme attraverso un’arte attenta e appassionata, una cura del significato profondo della realtà, nella molteplicità fluida delle forme: così può accadere attraverso l’ironia teatrale, un distacco poetico che permette di conservare la bellezza del significato, e così accade, senza cadere in fallo nella superficialità, ma indagando a fondo, i sentimenti e le vicende umane inscenate con Erodiàs al Teatro I dal 23 maggio all’11 giugno, nel tempo particolare della parte dell’attore, l’universale umano del tempo e dello spazio si colloca tra l’aspetto e l’attesa, partendo dalla narrazione della principessa Erodiade, sposa di Erode, colei che volle la decapitazione di Giovanni il battista, così come raccontato dai Vangeli.
Nell’intersezione del corpi, delle voci, delle vita, ritagliando uno spazio assoluto, sciolto da qualsiasi riferimento storiografico, ma teso a una nuova grafia storica, testimone delle vicende umane, la potenza delle scelte registiche di Renzo Martinelli ( assistente alla regia Irene Petra Zani) e l’accortezza drammaturgica di Francesca Garolla combinano eleganza e vigore, equilibrando il testo di Giovanni Testori con punte di umorismo e note di stile precise e intelligenti.
Con l’interpretazione fortemente simpatetica di Federica Fracassi, Erodiade è donna che domina l’osceno della scena in cui si trova, fuori di sé, fuori di senno, dialoga con sé stessa: nello sdoppiamento della testa, del capo del Battista Erodiade ha l’aspetto della vittima, in quanto essa stessa vittima del suo aspettare, delle sue aspettative. Il gioco poetico del dialetto bergamasco vivacizza il contrasto di toni, lasciando risuonare una frattura ancor prima che fisica, verbale, una disarticolazione che diverrà anche fisica, con la decapitazione di Giovanni, Jokannan.
Perdere l’aspetto, attendendo
La poeticità della rima baciata fa combaciare i due idiomi, ribadendo la meraviglia dell’arte che può rappresentare e conciliare ciò che nella vita resta fratto, separato, permettendo il dialogo di Erodiade con il suo passato, ripercorrendo le vicende, in una corsa accelerata del corpo che brama il possesso fisico cupido che cerca di ottenere, nell’ottusità di chi limita al visibile, di chi non ascolta l’altro, le parole del Battista di un Oltre, ma si avviluppa attorno a sé.
Nel vincolo corporeo Erodiade è destinata alla stasi, ad aspettare, lei che perde il suo aspetto, diventando egocentricamente rende cieca, incapace di vedere l’altro, ma soprattutto se stessa. Nello sforzo continuo dell’occhio cupido e avido, tra personaggio e attore si crea un contrasto esplosivo, l’abilità performativa agisce la frattura tra sé e altro nell’aspettare che annulla entrambi i poli, per culminare nella decapitazione.
Attraverso la forza dell’immagine scenica è restituito spazio all’immaginazione, il forte richiamo al fisico viene sviluppato tra acutezza e brillante sarcasmo e dà adito a suggestioni brillanti e ponderate, nell’equilibrio sorprendente di pregnanza fisica e finezza intellettuale, ricomponendo artisticamente la frantumazione del corporeo, che si fissa su di sé affossandosi, per poter mettere risolutivamente capo all’intelligenza poetica dell’Arte teatrale.